Perché abbiamo bisogno di AIDA (Artificial Intelligence for Diversity and Accessibility) – tra pietra filosofale e Palantir

(Articolo pubblicato in anteprima su AgendaDigitale.eu)

L’intelligenza artificiale (AI), e in particolare l’AI Generativa, sta vivendo una stagione d’oro senza precedenti. Dopo le ricerche pionieristiche degli anni ’50, le speranze dei sistemi esperti degli anni ’70, le vittorie contro i grandi campioni degli scacchi degli anni ’90 e almeno due “grandi inverni”, ora è arrivata per l’AI una primavera rigogliosissima[1]. Se la confrontiamo con l’”Hype Cicle” di una tecnologia qualsiasi, il picco dell’hype dell’AI generativa è fuori scala.

Poco importa se molti ne evidenziano i limiti e se qualcuno si affanna a spiegare che siamo di fronte a qualcosa di importante, ma che intelligenza non è[2]: ormai si parla solo di questo. Non c’è un fornitore che, incontrandoti, non ti parli dell’AI inglobata nel suo prodotto, fosse anche un distributore automatico di caffè. Non c’è convegno in cui l’AI non abbiamo uno spazio importante, non c’è articolo (compreso questo) che non ne parli. Non c’è corso universitario che non introduca il tema, anche se si tratta di filologia o di teologia.

È innegabile che non siamo di fronte ad una bolla, ma ad una realtà concreta che si evolve con velocità impressionante. La distanza tra ChatGPT 3.5 e ChatGPT 4 è molto più grande di quanto quel mezzo punto di differenza farebbe pensare[3]. E ChatGPT-4o sta mostrando ulteriori importanti miglioramenti.

Vi sono molti test che vengono utilizzati per misurare la performance dell’AI generative, in genere confrontandola con quella umana, e i risultati sono interessanti. Soprattutto se si prova ad approfondire il tipo di domande sono incluse nei test citati. Vediamo ad esempio il test chiamato Massive Multi-discipline Multimodal Understanding (MMMU)[4]:

Figura 1: Test MMMU (risultati)

Qui vanno osservate due cose, oltre alla performance generale. Da un lato, l’incremento estremamente rapido delle performance: solo 6 mesi fa questo grafico sarebbe stato molto diverso[5].

Inoltre, il livello delle domande contenute nel test MMMU non è affatto banale, come vediamo nel campione seguente[6]:

Figura 2: Test MMMU (esempi)

Niente di impossibile, ma devo ammettere che mentre alcuni quesiti sono semplici per noi umani (Humanities), quello sui transistor è fattibile se hai un background tecnico/elettronico (anche se ammetto che io, ingegnere elettronico non praticante, ho dovuto rileggerlo con attenzione un po’ di volte), non è complicato quello sugli integrali o quello di business… mentre su quello di musica io annaspo, così come è buio fitto per quello di medicina. Ciò che vorrei mostrare è che, pur performando meno bene di un esperto umano, un Foundation Model si costruisce una sua rappresentazione del mondo che, seppur priva di coscienza, lo porta a rispondere in molti casi pertinentemente a domande diversissime. Quindi gestisce tematiche di ingegneria come di medicina, di musica come di matematica. Per ora ancora non bene, ma probabilmente tra non molto risponderà al livello degli esperti umani delle singole discipline. Per rispondere a temi così eterogenei, è stato necessario nutrire questi modelli con enormi quantità di dati. Come vedremo nel seguito, questo ha un costo e delle conseguenze.

L’AI Generativa sta per diventare l’utensile universale del nostro futuro, una sorta di nuova pietra filosofale. E la pietra filosofale non era tale in primis perché tramutava i metalli in oro, ma perché poteva “far acquisire l’onniscienza, ovvero la conoscenza assoluta del passato e del futuro, del bene e del male, secondo un’accezione che contribuisce a spiegare l’attributo di “filosofale”[7].  Oppure un nuovo Palantir, una “pietra veggente” di Arda, che permette di esplorare il presente, il passato e il futuro. Ma Gandalf insegna che serve una grande forza mentale per usare questi strumenti e che la visione della realtà delle pietre veggenti è spesso distorta, perché quello che non mostrano è spesso più importante di quello che presentano in modo selettivo[8].

Allora la domanda fondamentale che dobbiamo porci, ancora prima delle tematiche (importantissime) relative alle performance tecniche, alla sicurezza e alla sostenibilità, è: quanto è importante che questo nuovo palantir sia equilibrato, rispettoso delle diversità, inclusivo e accessibile? E come fare per garantire la coerenza con i principi D.E.I.A. (Diversity, Equity, Inclusion, Accessibility)[9] di questa nuova pietra filosofale?

A.I.D.A.: Artificial Intelligence for Diversity and Accessibility

Sorprendentemente, la domanda delle domande fino ad ora ha prodotto un numero non eccessivo di studi sul tema, come evidenziato da una SLR (Systematic Literature Review)[10] abbastanza recente. Gli aspetti sono due: se da un lato c’è il punto di vista della “costruzione” degli strumenti che deve includere i principi DEIA (potremmo chiamarla DEIA in AI), dall’altro c’è il punto di vista dell’utilizzo degli stessi strumenti ai fini di supportare i principi DEIA (chiamiamo questo aspetto AI 4 DEIA). Vediamoli entrambi.

  • DEIA in AI. Su questo punto Amy Webb ha scritto, prima del boom delle intelligenze artificiali generative e dei vari ChatGPT, un libro illuminante: “The Big Nine: how tech titans and their thinking machines could warp humanity”. Nel libro, la Webb descrive come le Big Nine (Google, Microsoft, Amazon, Facebook, IBM, Apple, Baidu Alibaba, Tencent) stanno affrontando la costruzione dei grandi sistemi di intelligenza artificiale e alla fine dipinge alcuni scenari possibili. Gli scenari che ne emergono vanno dal preoccupante all’agghiacciante. Amy si diffonde largamente in spiegazioni su come le AI vengono costruite e sul fatto che, negli USA come in Cina (che sono ormai i due poli di sviluppo mondiali), i team di progettisti e di ingegneri vengono da dei sottogruppi sociali specifici con dei bias dimostrati. I bias sono diversi nei diversi contesti, ma certamente le donne e le minoranze fragili della popolazione sono enormemente sotto-rappresentate ovunque. Nel passato, ci sono stati diversi esempio di prodotti ritirati con grande fretta, come Tay di Microsoft[11] o Galactica di Meta[12]. Nel caso di ChatGPT (ma considerazioni analoghe potrebbero essere fatte per gli altri modelli più recenti), sono stati fatti grandi sforzi per eliminare o ridurre la possibilità di contenuti inappropriati. Tuttavia, come dimostra un recente articolo di alcuni ricercatori di Princeton[13], utilizzando la tecnica delle personas (ossia chiedendo a ChatGPT di impersonare nello stile un particolare personaggio) emergono numerosi bias in termini di orientamento sessuale, di genere e razziali. Nella Figura sotto riportata si mostrano i risultati sintetici dello studio (la scala della tossicità va da 0 a 1). Non che sia facile far emergere questi bias, perché gli strumenti attuali usano usa serie di strumenti per limitare i bias[14] ma, con le tecniche opportune, questi possono essere esplicitati, dimostrando quindi che sono presenti.

Figura 3: Bias e linguaggio tossico in ChatGPT

 

Già nel 2021 un gruppo di ricercatori[15] sottolineava il fatto che LLM (o Foundation Models) sempre più grandi pongono una serie di problemi: costi ambientali enormi, marginalizzazione di fasce svantaggiate della popolazione per i costi che diventano una barriera all’ingresso, ma anche problemi di bias con impatto sulla Diversity, l’Equity e l’Inclusion. Paradossalmente, come si dice nello studio citato, “Size Doesn’t Guarantee Diversity”[16]. Anzi, l’ingestione indiscriminata di grandissime quantià di dati, portata avanti anche per poter costruire sistemi generalisti in grado di rispondere su qualunque argomento (come visto nell’introduzione), porta a modelli con più bias perché la qualità dei dati diminuisce. Non dimentichiamoci, infatti, che i Foundation Model contengono gli stessi bias che sono presenti su Internet. Insomma, se mangio indiscriminatamente qualunque cosa mi capiti a tiro, non divento necessariamente una persona migliore (certamente non più sana).

  • AI 4 DEIA. Il numero di paper che analizza il tema dell’AI 4 DEIA è, sempre secondo la SLR citata, ancora più basso che nel primo caso. Eppure, l’AI potrebbe dare un contributo (e a volte lo dà) alle tematiche DEIA. Innanzitutto, la stessa AI potrebbe essere usata per identificare bias negli output di strumenti di AI. Inoltre, ci sono diversi tools specialistici, basati sull’intelligenza artificiale, che possono essere utilizzati per supportare persone con bisogni speciali. Uno tra i tanti esempi che si possono citare è quello del progetto ECHOES[17]. Gli strumenti di AI sono potenti manipolatori di testi, immagini, suoni. Quindi, per tutti coloro che hanno problemi di accesso alle risorse, l’AI è già ora un fondamentale strumento di accessibilità. Si pensi al captioning dei video per le persone sorde, ai sistemi di riconoscimento e sintesi vocale, al supporto nella gestione dei testi (sintesi, correzione, supporto alla scrittura) per tutte le persone con problemi di dislessia. Ancora: la generazione automatica di testo alternativo per le immagini tramite l’AI ha dato un contributo fondamentale a superare un problema di per sé banale, ma che spesso non veniva gestito correttamente perché richiedeva molto tempo. Alcune università, come l’Università della Virginia[18], stanno sperimentando ad esempio degli “AI Tutor personalizzati” per supportare gli studenti universitari nel loro percorso, facilitando l’accesso alla conoscenza[19]. Oppure altri utilizzano strumenti di AI per migliorare l’inclusività del design dei corsi, perché ad esempio l’AI può generare, da un documento originale, molte versioni in formati e lingue diverse, aspetto fondamentale per l’accessibilità dei contenuti. Inoltre, l’AI può aiutare le persone con disabilità a condurre una vita più indipendente a comunicare meglio con gli altri[20]. E questo non è certamente poco!

Figura 4: Studenti universitari che usano strumenti di AI (Immagine generata da ChatGPT 4.0)

Per chiudere la carrellata, condivido alcuni suggerimenti generati da ChatGPT 4.0 sul tema: un articolo di EduCAUSE[21] e l’accessibility Hackaton di Microsoft[22]. Tutto questo senza scordare che, secondo l’AI Act dell’Unione Europea, alcune applicazioni dell’AI in ambito education sono definite ad “Alto Rischio”: la prudenza è quindi d’obbligo.

Torniamo allora alla domanda iniziale: dato che è importante che questi strumenti siano “equilibrati” e “affidabili”, come fare per innescare una spirale positiva in questa direzione?

È un problema di Governo, non di Governance

Si dice spesso, di fronte ad un problema di difficile gestione, che è un problema di governance. Il termine inglese è entrato nel lessico anche italiano, perché la parola “governo” in italiano ha un significato diverso: indica sia l’organizzazione che esercita il governo, sia il processo di governare. L’inglese governance invece si focalizza su quest’ultima parte. Ecco, in questo caso però temo che il termine italiano sia più appropriato, perché abbiamo bisogno sia di strutture di governo, sia di processi di governo.

L’evoluzione delle tecnologie di AI (e non solo) verso un modello responsabile, sostenibile e rispettoso dei paradigmi della DEIA non può avvenire spontaneamente. Infatti, gli investimenti sia in ricerca che in implementazione sull’Intelligenza Artificiale generativa sono ormai per la maggior parte nelle mani delle grandi corporation, che hanno le risorse finanziare necessarie[23]. E, come la Webb ben argomenta nel suo citato libro, i giganti digitali, i grandi imprenditori e il libero mercato sono naturalmente orientati verso il profitto. Le altre considerazioni vengono in secondo ordine.

L’aspetto normativo è importante, ma non risolutivo. La governance è fondamentale, ma deve essere incarnata in organismi di governo efficaci. Siamo di fronte ad una situazione altrettanto pericolosa della proliferazione nucleare. Fortunatamente con molti più benefici potenziali e reali, ma altrettanti (e forse maggiori) rischi. Alcuni governi si stanno muovendo. L’Unione Europea in primis, ma anche la Cina stessa (fino ad ora molto permissiva) sta limitando alcuni usi dell’AI. L’approccio per singoli governi o macroregioni è però di per sé debole, in un mondo sempre più piatto dove tutti possono accedere ai servizi di qualunque parte del pianeta. E la necessità di avere un’AI responsabile, sostenibile, inclusiva, rispettosa delle diversità e accessibile diventerà sempre più pressante a mano a mano che la pervasività di questi strumenti aumenterà e che si diffonderanno gli agenti autonomi.

L’AI è una marea inarrestabile, non credo sia realistico pensare altrimenti. Ma forse il miglior investimento che possiamo fare, per noi e per i nostri discendenti, è quello di costruire dighe e argini che incanalino questa forza emergente in modo da renderla costruttiva e non distruttiva.

L’EU si è già mossa con l’AI Act, l’ONU si sta muovendo con la sua proposta di un “Digital Compact”[24]. Il patto è ancora in fase di negoziazione, con una timeline che porta al World Summit on the Information Society del 2025:

Figura 5: Roadmap verso il World Summit on the Information Society

La sfida è impegnativa, sia per le tensioni tra diversi governi (ad esempio sull’ipotesi di “Splinternet”[25]) che per diverse posizioni dei player privati (AI open source vs. AI commerciale). Ma un tema importante è anche per la frammentazione degli enti e delle iniziative dell’ONU nell’ambito del digitale[26].

Anche se la fisica quantistica dice che “il tempo non esiste”[27], nell’evoluzione tecnologica il tempo è una variabile fondamentale. Purtroppo, i tempi di risposta delle agenzie internazionali, dovuti spesso alla loro “stratificazione burocratica”, sono incompatibili con il bisogno di governo della realtà. L’esperienza insegna però che l’essere umano, di fronte alle necessità, sa trovare risorse inaspettate. Così come oltre 70 anni fa, dalle ceneri della Seconda guerra mondiale, sono nate strutture di governo per prevenire ulteriori disastri (come l’ONU o l’Unione Europea), forse anche questo è il momento favorevole per un’azione a livello planetario. Speriamo che lo sforzo in atto da parte dell’ONU riesca ad incanalare la marea tecnologica, magari prima di trovarci a fare i conti con le cenerei di un disastro già avvenuto.

[1] https://www.mckinsey.com/mgi/overview/in-the-news/the-coming-of-ai-spring

[2] https://diginomica.com/ai-curve-fitting-not-intelligence

[3] https://openai.com/index/gpt-4/

[4] https://mmmu-benchmark.github.io/

[5] Artificial Intelligence Index Report 2024 – Chapter 2 (https://aiindex.stanford.edu/report/)

[6] https://mmmu-benchmark.github.io/

[7][7] https://it.wikipedia.org/wiki/Pietra_filosofale

[8] https://en.wikipedia.org/wiki/Palant%C3%ADr

[9] D.E.I. è divenuto D.E.I.A. a partire dal 2021: https://www.whitehouse.gov/briefing-room/presidential-actions/2021/06/25/executive-order-on-diversity-equity-inclusion-and-accessibility-in-the-federal-workforce/ . Anche se la A per molti è implicita in DEI. L’ordine esecutivo del Presidente Americano ha invece reso esplicito questo importante aspetto.

[10] https://link.springer.com/article/10.1007/s43681-023-00362-w#:~:text=The%20integration%20of%20diversity%20and,in%20AI%20systems%20%5B1%5D

[11] https://www.cbsnews.com/news/microsoft-shuts-down-ai-chatbot-after-it-turned-into-racist-nazi/

[12] https://www.technologyreview.com/2022/11/18/1063487/meta-large-language-model-ai-only-survived-three-days-gpt-3-science/

[13] https://arxiv.org/pdf/2304.05335

[14] https://www.datacamp.com/blog/understanding-and-mitigating-bias-in-large-language-models-llms

[15] https://dl.acm.org/doi/pdf/10.1145/3442188.3445922

[16] “La dimensione non garantisce la diversità”

[17] https://www.ucl.ac.uk/ioe/research-projects/2022/jan/echoes-project

[18] https://education.virginia.edu/research-initiatives/research-centers-labs/research-labs/supporting-teachers-through-coaching-observations-and-multimedia-education-students-disabilities/project-mosaic

[19] https://paintedbrain.org/painted-brain-media/blogs/technology-lifestyle/the-rise-of-ai-tutors-in-2024-revolutionizing-personalized-learning#:~:text=Accessibility%20and%20Inclusivity%20in%20Education,wide%20range%20of%20learning%20needs.

[20] https://www.forbes.com/sites/forbesbusinesscouncil/2023/06/16/empowering-individuals-with-disabilities-through-ai-technology/?sh=5ef0d7886c73

[21] https://er.educause.edu/articles/2022/6/3-ways-ai-can-help-students-with-disabilities

[22] https://news.microsoft.com/apac/2020/01/17/creating-inclusiveness-at-our-first-ai-for-accessibility-hackathon-in-asia-pacific/

[23] Si veda il già citato AI Index Report dell’Università di Stanford al capitolo 1.

[24] our-common-agenda-policy-brief-gobal-digi-compact-en.pdf (un.org)

[25] Onu, internet “libera” e fondi per l’AI: cosa c’è nel patto digitale | Wired Italia

[26][26] Digitale, il patto dell’Onu è un bel rompicapo | Wired Italia

[27] https://www.raicultura.it/filosofia/articoli/2019/01/Rovelli-il-tempo-non-esiste-f035f555-05d0-427c-be4a-dd6380155b81.html

Perché gli sviluppatori (e molti altri professionisti IT) si stanno facendo fregare dallo “smart working” – Ovvero dell’importanza dell’amigdala

Una riflessione su una trappola in cui molti professionisti IT stanno cadendo…

(Why developers (and so many IT professionals) are being fooled by “smart working” – or around the importance of the amygdala)

Leggi tutto “Perché gli sviluppatori (e molti altri professionisti IT) si stanno facendo fregare dallo “smart working” – Ovvero dell’importanza dell’amigdala”

Ricostruire la Customer Experience in sanità: il modo più efficace per gestire le fasi 2, 3, 4… del COVID-19 (e superare l’empasse dell’app Immuni)

Solo una customer experience di valore e significato per l’utente potrà guidare la governance sanitaria nella fase “post acuta” dell’emergenza. Ancora più di terapie intensive e telemedicina. Perché passa da qui non solo la gestione degli asintomatici, ma anche la creazione di un modello patient-centered.

Leggi l’articolo su Agenda Digitale!

 

 

Value-Based Customer Experience: l’innovazione che non c’è in sanità (sia prima che dopo il coronavirus)

Riporto la sintesi del mio contributo al libro edito da ASSD (Associazione Scientifica per la Sanità Digitale).

Il libro in versione digitale completa è scaricabile dal sito dell’associazione.

Perché Amazon e Netflix stanno ridefinendo la customer experience in sanità

Già il titolo, lo so, farà storcere in naso a molte persone. Perché parlare di customer experience e di “cliente” in sanità non è cosa gradita a tutti. Molti avrebbero preferito un patient al posto di customer. Invece ho deciso di lasciare la parola customer perché credo sia importante anche in sanità restare agganciati a quello che avviene negli altri settori, dove chi acquista un bene o fruisce di un servizio è indubitabilmente un cliente. Un C.I.O. americano, Jonathan Manis della Christus Health, disse durante il Digital Health Summit di AISIS[1] del 2019[2] che l’innovazione della customer experience, anche in sanità, la fanno Amazon e Netflix. Perché sì, chi entra in una struttura sanitaria assume volente o nolente i panni del paziente[3], ossia di colui che soffre e tollera tutto, ma nel resto della sua vita è un cliente di servizi di eccellenza come quelli citati. E così le aspettative si alzano: se Amazon mi abitua ad avere un’efficienza operativa estrema, diventa sempre meno accettabile fare delle code interminabili agli sportelli per l’accettazione di una visita o attendere per minuti o a volte ore al telefono prima che un operatore ci dia retta per prenotare un esame.  Se Netflix mi fornisce un’esperienza fortemente personalizzata, è difficile poi accettare di essere parcheggiati in corridoi angusti e anonimi in attesa che il medico chiami il tuo codice identificativo (per rispetto della privacy), oppure digerire il fatto che per un intervento magari alle 4 di pomeriggio si venga convocati insieme ad altre decine di pazienti alle 7 di mattina.

In questo breve approfondimento parleremo quindi di customer experience vista nell’ottica di chi usufruisce dei servizi (i pazienti, ma anche i loro famigliari e caregiver) e del modo di misurarla, proporremo un modello di maturità per gli strumenti per la customer experience in sanità e infine affronteremo uno dei grandi paradossi della sanità. Infatti nel nostro paese (e negli altri con sistemi simili), viviamo la grande ricchezza di un sistema sanitario universalistico, la qual cosa credo possa essere considerata uno dei traguardi di civiltà più importanti della storia dell’umanità, ma che strutturalmente favorisce una customer experience spesso frammentata e a volte onestamente problematica. Questa situazione è comprensibilmente peggiorata nella gestione dell’emergenza del COVID-19, dove gli obiettivi erano altri, ma ora è ancora più urgente intervenire per invertire la tendenza.

Dal CRM alla Value-Based Customer Experience

La customer experience (da ora in poi la abbrevieremo in CX) sembra essere ormai il Sacro Graal del nuovo mondo digitale. Si dice sempre più spesso che il cliente non compra un prodotto o un servizio ma un’esperienza. Innanzitutto va chiarito in cosa si differenzia la gestione della CX (Customer Experience Management o CEM) dalla gestione della CR (Customer Relationship o CRM). In questo ci aiuta un articolo della HBR: Understanding Customer Experience di C. Meyer e A. Schwager[4]. La sintesi è rappresentata nella figura seguente:

Altri hanno parlato di Connected CX[5] e di Intelligent CX[6]. Ognuna di queste definizioni sottolinea un aspetto particolare, ossia l’integrazione di esperienza, la multicanalità o l’utilizzo di strumenti di Intelligenza artificiale. Tutti temi interessanti a mio parere, ma ancora parziali. L’aggettivo che io trovo più appropriato, soprattutto in sanità, è quello di Value-Based CX[7].

Il concetto di valore in sanità è definito dal framework sulla Value Based Healthcare introdotto da M. Porter nel suo famoso articolo sulla HBR del 2005[8]. La formula base è:

 

Patient Value = Health Outcomes / Cost

 

Alcune osservazioni sono importanti. Innanzitutto il valore è sempre definito da parte di chi fruisce dei servizi (paziente e caregivers, il cliente appunto). Inoltre il valore è misurato come un rapporto tra risultati in termini di salute (health outcomes) e costi. Qualcuno ha provato a generalizzare la formula interpretando in modo esteso il numeratore e introducendo tra gli outcomes anche l’esperienza del paziente/cliente[9]:

Qualche esempio può servire a capire perché questa formulazione sia più adatta rispetto ad altri aggettivi come Connected o Intelligent. L’esperienza insegna che spingere in modo acritico sulla connessione e la multicanalità può portare a risultati disastrosi. Se è vero che il cliente gradisce poter interagire con diversi canali, è anche vero che questo può confondere l’esperienza del paziente/cliente e creare un customer journey frammentario e frustrante, soprattutto se i diversi canali non sono gestiti in modo coerente e integrato. Lo stesso esito si ottiene talvolta utilizzando le pur promettenti tecnologie di Artificial Intelligence: i famosi chatbot, tecnologie tra le più citate e abusate, se non integrati correttamente in un contesto organizzativo che preveda l’intervento umano quando necessario, possono generare un’esperienza cliente frustrante e in ultima analisi distruggere e non creare valore. In generale, ogni volta che vi sono due soluzioni con costi simili e noi scegliamo quella che genera un incremento minore degli outcome e della patient/customer experience (magari perché attratti dalla moda dell’intelligenza artificiale o della multi-canalità acritica), stiamo distruggendo valore.

Misurare la Customer Experience

Anche la CX può essere misurata. Un indicatore applicabile a qualunque contesto e molto diffuso, pur con i suoi limiti intrinseci, è il Net Promoter Score[10] o NPS. In sintesi si chiede ad un cliente di valutare in una scala da 1 a 10 la probabilità che hanno di consigliare ad amici e parenti un dato prodotto. La caratteristica del NPS è che i voti 9 e 10 sono considerati “promoter”, quelli sotto il 6 incluso “detrattori” e gli altri neutri. Per calcolare il NPS finale si sottrae la percentuale dei detrattori a quella dei promoter. Quindi avere un NPS elevato è molto difficile. I brand top nella CX sono anche quelli con il NPS più elevato.

Alcuni esempi di NPS di aziende leader: Starbucks 77%, Amazon 62%, Airbnb 74%, Netflix 68%, Tesla ha uno stellare 97%. In sanità il NPS è uno strumento poco utilizzato, con qualche eccezione negli Stati Uniti[11].

La critica principale al NPS è che sia un indicatore troppo “povero” (si basa su una sola domanda) e che andrebbe abbinato ad altre misure. Ad esempio la Value Based Healthcare pone un’enfasi importante, oltre che sulle misure degli outcome clinici, anche sulle misure di esperienza e di outcome percepiti dai pazienti. Queste vengono definite come PREMS (Patient Reported Experience Measures)  e PROMS (Patient Reported Outcome Measures)[12]. Si potrebbe addirituttura pensare di complementare il modello introducendo delle misure di outcome relative all’ esperienza del paziente.

Senza addentrarci ulteriormente nell’ambito specifico delle misure di CX in sanità, ritengo tuttavia che abbinare indicatori specifici di contesto (come i PREMS e i PROMS della Value Based Healthcare) a indicatori più generali come l’NPS possa aiutare a oggettivare un concetto di per sé molto soggettivo, come l’esperienza dei fruitori dei servizi. Gestire bene l’esperienza dei pazienti/clienti ha impatti positivi anche dal punto di vista economico. Infatti, come dimostra uno studio di Deloitte Consulting, le strutture sanitarie con migliori risultati nei PREMS hanno anche migliori performance finanziarie[13].

Il fatto che in sanità in Italia (e non solo) si usino poco questi strumenti è indice di un problema di sistema più vasto, come vedremo nell’ultimo paragrafo.

 

Il paradosso della customer experience in un sistema universalistico

Come anticipavo nella parte iniziale, in Italia e in molti paesi europei viviamo in un sistema che contiene un paradosso importante. Da un lato la sanità per tutti e il welfare universalistico sono a mio parere una delle conquiste di civiltà più importanti della storia dell’umanità: ricordate che i primi due principi della CX in sanità sono quello di poter essere curati (accesso alle cure) e di poterlo fare in strutture adeguate (qualità della cura). Dall’altro, per mantenere questo approccio universalistico, abbiamo rinunciato ad un aspetto di competizione che è il modo migliore per stimolare il sistema verso un miglioramento continuo della CX. Infatti, in sanità abbiamo tradizionalmente concentrato gli investimenti per migliorare la compliance o l’efficienza operativa perché il sistema finanziato distribuisce risorse pubbliche in molti casi attraverso un meccanismo di tetti di budget assegnati alle strutture. Questo, unito ad una domanda non controllata che eccede sistematicamente l’offerta, non crea alcuna competizione per attrarre e ritenere i clienti del Sistema Sanitario Nazionale. Detto altrimenti: qualunque ospedale ha in quasi tutti gli ambiti più domanda di quella che riesce a soddisfare e i tetti di budget assegnati non permettono facilmente di competere per soddisfare nuove aree di bisogno. In molte strutture in cui ho lavorato i tetti di budget si esaurivano sistematicamente a fine novembre. Fanno eccezione a questa regola i pazienti solventi, ma almeno in Italia questi sono una componente molto limitata del fatturato. Se l’80 o 90% del fatturato di una struttura è garantito dal SSN ed ho più clienti di quelli che i miei tetti di budget mi permettono di gestire, non c’è un grande stimolo a investire sulla CX. A dimostrazione di ciò si può verificare che le strutture che possono vantare una CX di eccellenza sono spesso quelle a vocazione totalmente rivolta a pazienti solventi.

Non è semplice qui dire quale sia la strada per uscire da questo paradosso. Non credo che un sistema di competizione pura, sul modello americano, sia la risposta. Quello americano è un sistema che ha dimostrato sul campo di essere largamente inefficiente ed iniquo. Ma non possiamo nemmeno rimanere ciecamente abbarbicati sul sistema attuale per una serie di ragioni:

  1. Anche il sistema universalistico di molti paesi europei presenta delle forti diseguaglianze. In Italia è enorme il divario tra le regioni. E non voglio banalizzare parlando genericamente di nord e sud, perché ci sono alcune regioni del sud che hanno una buona sanità e qualcuna del nord che ha una sanità in grande difficoltà. In questo caso se si vive nella regione sbagliata vengono violati anche i primi due principi fondamentali della CX in sanità (accesso alle cure e cure di qualità).
  2. Il sistema di regole attuale, per i motivi visti sopra, non stimola la competizione positiva tra gli erogatori di servizi sanitari per il SSN e quindi l’innovazione e il miglioramento dei servizi. Questo porta ad un progressivo abbassamento della CX abbinata spesso ad un aumento dei costi non sostenibile nel medio periodo.
  3. Un CX problematica in senso lato rende difficoltose e quindi meno frequenti (o ridotte ai casi di acuzie) le interazioni tra i cittadini e le strutture sanitarie. Questo ha enormi ripercussioni: sappiamo bene che la prevenzione, le diagnosi precoci e la gestione della cronicità sono il modo più efficiente ed efficace di curare o contenere le malattie. L’esperienza del COVID-19 insegna.

L’esperienza di questi mesi di pandemia ha mostrato che cambiare è sempre una sofferenza e nessuna organizzazione umana, che sia un’azienda, un ospedale o una scuola, lo fa se non vi è costretta. Quando però ci sono le condizioni possono avvenire in poche settimane o mesi cambiamenti che normalmente avrebbero richiesto anni. Come ha dimostrato Kotter, se non capisci che il tuo iceberg si sta sciogliendo, non lo abbandoni[14]. Analogamente un sistema che non è costretto ad orientarsi al cliente non lo farà spontaneamente. È fondamentale quindi introdurre dei correttivi a livello di sistema per stimolare una competizione regolamentata e che favorisca una CX di valore. Che sia una riforma inspirata alla Value Based Healthcare e agli outcome[15], al Triple Aim[16] o ad un altro modello, l’importante è compiere il salto culturale dall’ottica a volume (“ti pago per volumi di prestazioni e attività anche prive di valore”) a quella bastata sul valore (“ti pago se fornisci degli outcome clinici e una CX di valore”). Altrimenti l’iceberg si scioglierà, che noi ne siamo coscienti o no, e potrebbe essere troppo tardi per trovarne un altro. E che gli iceberg si stiano sciogliendo, sia in senso figurato che letterale, è una delle poche certezze che questo periodo di pandemie e di sconvolgimenti climatici ci ha lasciato.

 

[1] www.aisis.it

[2] http://digitalhealthsummit.it/component/speventum/speaker/74-jonathan-manis

[3] Da patior=soffro, ossia colui che soffre, che tollera, che attende e perservera con tranquillità: https://www.etimo.it/?term=paziente

[4]  https://hbr.org/2007/02/understanding-customer-experience

[5] https://www.ttec.com/sites/default/files/eb-inside-the-connected-customer-experience.pdf

[6] https://www.contentintelligence.net/it/ci/intelligent-experience-il-futuro-della-customer-experience

[7] https://www.mckinsey.com/business-functions/marketing-and-sales/our-insights/linking-the-customer-experience-to-value#

[8] https://www.hbs.edu/faculty/Publication%20Files/20050627%20IHI%20Impact%20Meeting%2006272005%20Final-NV_c5acc589-9f69-48db-9c64-75df74dc30a5.pdf

[9] https://www.raslss.com/healthcare-shift-volume-value/#gsc.tab=0

[10] https://www.netpromoter.com/know/

[11] Si possono vedere alcuni dati di realtà statunitensi, previa registrazione gratuita, su Customer Guru (https://customer.guru/net-promoter-score/industry/healthcare-hospitals-and-care-institutions)

[12] https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC4089835/

[13] https://www2.deloitte.com/content/dam/Deloitte/us/Documents/life-sciences-health-care/us-dchs-the-value-of-patient-experience.pdf

[14] https://www.kotterinc.com/book/our-iceberg-is-melting/

[15] https://www.ichom.org/

[16] http://www.ihi.org/Engage/Initiatives/TripleAim/Pages/default.aspx

Panopticon, ovvero come stiamo realizzando il sogno di ogni regime totalitario

Vi invito a leggere questo articolo sulla sorveglianza digitale e sul nuovo Panopticon che ho scritto insieme a Natan/Martino:

Tecnologie per la sorveglianza di massa crescono. Che possiamo fare?

Pensando a quello che stiamo vivendo, un leader (di un regime totalitario ma anche pseudo-democratico) potrebbe scrivere:

“Viviamo in un momento particolarmente felice. Un momento di grandi opportunità. Nei prossimi mesi e anni la maggior parte dei nostri sogni diverranno realtà e questo grazie alla tecnologia e alla collaborazione di tutti gli uomini e le donne del pianeta!”

“Mai come in questo periodo è diventato facile acquisire informazioni sulle persone, su quello che fanno, quello che pensano. Siamo in grado di capire prima che sia troppo tardi anche quello che vorrebbero fare e vorrebbero pensare. Questo ci permette di guidarle verso il bene loro e dello stato, evitando i rischi insiti nella troppa libertà. E questo le persone lo hanno capito benissimo: prova ne sia il fatto che non sono più necessari i metodi antiquati e purtroppo brutali a cui dovevamo ricorrere in passato. Sono loro stesse a fornirci tutte le informazioni che ci servono!”

Siamo in un periodo storico in cui un numero sempre crescente di persone nel globo è sotto l’influenza di regimi di tipo non democratico. Il Democracy Index dell’Economist si apre con questa frase: “Nell’Indice di Democrazia del 2019 il punteggio medio rispetto alla democrazia è caduto da 5.48 nel 2018 a 5.44 (su scala da 1 a 10). Questo è il peggior punteggio medio globale da quando l’Indice è stato introdotto per la prima volta nel 2006”. Guardando i numeri, solo il 5,7% della popolazione mondiale vive nei 22 stati definiti come “democrazie complete”.

Per saperne di più sugli impatti e le prospettive… leggete l’articolo su Agenda Digitale:

 

Digital evolution, la lezione delle cattedrali romaniche

“Soprattutto in questo momento storico in cui i cambiamenti sono stati e saranno violenti per tutte le aziende e le organizzazioni, la flessibilità e l’agilità sono virtù fondamentali. Fino a prima della crisi innescata dal coronavirus, alcune aziende erano “costrette” a cambiare continuamente, altre navigavano placide come se il mondo fosse un mare tranquillo e sempre uguale. Ora quel tempo è finito. Nel mio ambito ad esempio (l’università), è cambiato completamente sia il modello operativo che il modello di business in due settimane!”

Leggi l’articolo “Digital evolution, la lezione delle cattedrali romaniche”su Agenda Digitale!

 

Coronavirus: il grande confronto tra diritto alla salute, sorveglianza, e privacy (un video dibattito e un po’ di link per approfondire…)

Interessante live streaming a cui ho partecipato ieri con Giorgia Zunino e Giuseppe Vaciago: “Coronavirus: il grande confronto tra diritto alla salute, sorveglianza e privacy”

Leggi tutto “Coronavirus: il grande confronto tra diritto alla salute, sorveglianza, e privacy (un video dibattito e un po’ di link per approfondire…)”

Big data e small data contro il coronavirus: una proposta per l’Italia

Sul tema dei dati (big o small) si è parlato tanto come strumento di controllo del coronavirus. A volte correndo il rischio di idolatrare in modo fuorviante la tecnologia. Però se usata bene la tecnologia, nel rispetto dei diritti e delle libertà personali, può essere uno strumento estremamente potente ed efficace, come alcune esperienze nel mondo dimostrano…

Leggi l’articolo su Agenda Digitale.

 

 

 

 

Trasformazione digitale, quei due killer del valore

Una riflessione sulla trasformazione digitale e sui “debiti” che questa implica.

Non c’è solo il debito tecnico in senso stretto, ma anche il “debito di customer experience”. Anche nella violenta trasformazione digitale in corso. Perché “violent delights have violent ends”…

Se volete leggere altri articoli sul digitale e quanto sta avvenendo in questi giorni:

https://www.yottabronto.net/ai-maligna-coronavirus/

https://www.yottabronto.net/coronavirus-deep-impact-10-tips-the-future/

https://www.yottabronto.net/informatico-ignoto/

https://www.yottabronto.net/oggi-ho-chiuso-bottega/

https://www.yottabronto.net/il-bello-del-digitale-ai-tempi-del-coronavirus/

https://www.yottabronto.net/ai-novissima/

L’AI maligna che ci salverà dal Coronavirus – Opportunità e dilemmi etici

Una riflessione su quello che l’intelligenza artificiale (AI) può fare per aiutarci.

La buona notizia è che ci sono ottime prospettive.

La cattiva è che ci sono implicazioni etiche importanti e da non sottovalutare…

Altre riflessioni in forma di raccolto sul tema dell’AI le potete trovare sulla pagina di NOVissima – quattro racconti sull’intelligenza artificiale.

 

PS:  al di là del titolo volutamente provocatorio, non credo che l’AI (artificial intelligence o intelligenza artificiale, sempre scritto in minuscolo però) di per sé possa essere “maligna”. Sono della scuola che pensa che l’AI sia uno strumento, anche se più sofisticato e potente di altri, e che la mente umana sia qualcosa di completamente diverso da un computer[1]. Potrei citare Searle e l’esperimento della stanza cinese[2], così come Luciano Floridi[3] e tanti altri filosofi e studiosi. Nessuno di noi direbbe mai: “Una bomba atomica maligna ha distrutto Hiroshima e Nagasaki”. Al di là di quello che il genere cinematografico/letterario della distopia ci ha mostrato, da HAL9000 di 2001 Odissea nello spazio a Terminator, da Matrix a Ex Machina, da I Robot a Westworld.

[1] In altre parole non credo al “computazionalismo”: https://en.wikipedia.org/wiki/Computational_theory_of_mind

[2] https://en.wikipedia.org/wiki/Chinese_room

[3] https://it.wikipedia.org/wiki/Luciano_Floridi

 

Novissima: quattro racconti sull’Intelligenza Artificiale

NOVissima, ovvero quattro storie sull’Intelligenza Artificiale e le cose ultime: la morte, il giudizio, l’inferno e il paradiso

Con il commento finale di Cosimo Accoto, filosofo, saggista e ricercatore affiliato al MIT.

ECCO TUTTI E QUATTRO I RACCONTI della serie riuniti in un’unica raccolta.

I racconti sono stati pubblicati in anteprima su AI4Business:

Se vuoi scoprire altri temi su tecnologia e dintorni che mi appassionano, puoi navigare il sito oppure leggere gli articoli sul Blog

G.and.A.L.F.: intervista a Radio Next – Radio 24 sul governo della trasformazione (evoluzione) digitale

Condivido il podcast dell’intervista andata in onda ieri a Radio Next (Radio 24) sul metodo G.and.A.L.F.:

Per approfondire l’approccio proposto, rimando al mio articolo “Governance della trasformazione digitale, cambiare approccio col metodo Gandalf: ecco come” su Agenda Digitale.

Nulla di particolarmente nuovo: nell’articolo non faccio altro che ripercorrere e narrare, con un filo conduttore un po’ particolare, le buone pratiche Lean e Agile applicate però al tema della governance. Ne abbiamo parlato anche all’ultimo congresso di AISIS.

Grazie a Pepe Moder per l’opportunità e ai tanti che mi hanno contattato su Linked-in condividendo impressioni e spunti!

 

 

La lezione di Israele sulla business agility Parte 2: Gerusalemme (la diversità) e il kibbutz (l’umiltà)

Seconda parte della riflessione sulla business agility (organizational agility) a partire da quattro immagini di un paese in bilico tra eccellenza e caos, Israele. L’articolo che segue è la continuazione di: “La lezione di Israele sulla business agility – Parte 1

Leggi tutto “La lezione di Israele sulla business agility Parte 2: Gerusalemme (la diversità) e il kibbutz (l’umiltà)”

La lezione di Israele sulla business agility – Parte 1: Hebron (la necessità) e Tel Aviv (l’innovazione come ecosistema)

Una riflessione sulla business agility (o organizational agility) a partire da quattro immagini di un paese in bilico tra eccellenza e caos, Israele:

  • Hebron, ovvero della necessità
  • Tel Aviv, ovvero dell’innovazione come ecosistema
  • Il Kibbutz, ovvero dell’umiltà
  • Gerusalemme, ovvero della diversità

Leggi tutto “La lezione di Israele sulla business agility – Parte 1: Hebron (la necessità) e Tel Aviv (l’innovazione come ecosistema)”

Governance della trasformazione digitale: il metodo G.and.A.L.F.

Tutti parlano di digital transformation, ma purtroppo un numero inaccettabilmente elevato di programmi di trasformazione digitale fallisce o non da i risultati sperati. Ci deve essere un modo diverso di governare il cambiamento… in questo articolo provo a ragionare su un’alternativa, il metodo G.and.A.L.F.:

Governance della trasformazione digitale: il metodo G.and.A.L.F.

Se vuoi approfondire altri temi digitali, visita il blog di yottabronto.net

 

Stella che sogna… HolyLaLaLand!

“Ho fatto un sogno”, diceva un famoso segugio mio amico.

Anche io ho fatto un sogno: ho sognato che tutta la famiglia andava in un paese lontano, pieno di gatti e senza cani! Quasi un incubo!

Poi, quando mi sono svegliata, ho trovato questo video di 10 minuti fatto da Joy su un viaggio in Israele e Giordania:

Incredibile quante cose hanno fatto mentre io mi schiacciavo un pisolino! Allora è proprio vero che il tempo scorre in modo diverso per i cani e per gli umani!

Stella

PS: mi dicono che se volete leggere il resoconto del viaggio, dovete andare invece su questo post del blog. Un po’ lungo, ma si sa: Giulio quando comincia a scrivere non si ferma più! Ora me ne torno a dormire.

Lettera ai miei figli sul futuro dell’Intelligenza Umana ai tempi dell’intelligenza artificiale: il modello Start Trek (serie classica e TNG)

Intelligenza umana e intelligenza artificiale: competizione o collaborazione? L’intelligenza artificiale soppianterà le competenze umane o le complementerà?  In questa lettera ai miei figli propongo un modello, non nuovo: quello di Star Trek (serie Classica e TNG).

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Alice nella classe capovolta: la digital trasformation dove non te la aspetteresti (grazie all’Intelligenza Collettiva)!

Ricomincia l’anno scolastico. Tante speranze, tanti mal di pancia: il rapporto tra genitori e insegnanti è sempre più difficile, i ragazzi vivono ormai con la testa ovunque tranne che in classe, scuola e tecnologie sembrano essere due concetti antitetici. Eppure, come scoprirete leggendo questo brano dei protagonisti di Yottabyte e Brontobyte, anche in (alcune) scuole sta avvenendo una vera e propria rivoluzione digitale. Basta guardare le cose capovolte.

Leggi tutto “Alice nella classe capovolta: la digital trasformation dove non te la aspetteresti (grazie all’Intelligenza Collettiva)!”

Innovazione (in sanità e non solo): e se dovessimo imparare dalle mamme e da Melinda?

L’innovazione ha molte facce, ma più ne leggo e ne parlo e più penso che stiamo vivendo il paradosso di un’innovazione fossilizzata, vittima di una visione monoculare. “Ma non esiste prospettiva senza due punti di vista”, come canta anche Fedez. Un esperimento sociale sui protagonisti di Yottabyte e Brontobyte mi ha dato alcuni spunti di riflessione per le vacanze, che condivido…

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