Riporto la sintesi del mio contributo al libro edito da ASSD (Associazione Scientifica per la Sanità Digitale).
Il libro in versione digitale completa è scaricabile dal sito dell’associazione.
Perché Amazon e Netflix stanno ridefinendo la customer experience in sanità
Già il titolo, lo so, farà storcere in naso a molte persone. Perché parlare di customer experience e di “cliente” in sanità non è cosa gradita a tutti. Molti avrebbero preferito un patient al posto di customer. Invece ho deciso di lasciare la parola customer perché credo sia importante anche in sanità restare agganciati a quello che avviene negli altri settori, dove chi acquista un bene o fruisce di un servizio è indubitabilmente un cliente. Un C.I.O. americano, Jonathan Manis della Christus Health, disse durante il Digital Health Summit di AISIS[1] del 2019[2] che l’innovazione della customer experience, anche in sanità, la fanno Amazon e Netflix. Perché sì, chi entra in una struttura sanitaria assume volente o nolente i panni del paziente[3], ossia di colui che soffre e tollera tutto, ma nel resto della sua vita è un cliente di servizi di eccellenza come quelli citati. E così le aspettative si alzano: se Amazon mi abitua ad avere un’efficienza operativa estrema, diventa sempre meno accettabile fare delle code interminabili agli sportelli per l’accettazione di una visita o attendere per minuti o a volte ore al telefono prima che un operatore ci dia retta per prenotare un esame. Se Netflix mi fornisce un’esperienza fortemente personalizzata, è difficile poi accettare di essere parcheggiati in corridoi angusti e anonimi in attesa che il medico chiami il tuo codice identificativo (per rispetto della privacy), oppure digerire il fatto che per un intervento magari alle 4 di pomeriggio si venga convocati insieme ad altre decine di pazienti alle 7 di mattina.
In questo breve approfondimento parleremo quindi di customer experience vista nell’ottica di chi usufruisce dei servizi (i pazienti, ma anche i loro famigliari e caregiver) e del modo di misurarla, proporremo un modello di maturità per gli strumenti per la customer experience in sanità e infine affronteremo uno dei grandi paradossi della sanità. Infatti nel nostro paese (e negli altri con sistemi simili), viviamo la grande ricchezza di un sistema sanitario universalistico, la qual cosa credo possa essere considerata uno dei traguardi di civiltà più importanti della storia dell’umanità, ma che strutturalmente favorisce una customer experience spesso frammentata e a volte onestamente problematica. Questa situazione è comprensibilmente peggiorata nella gestione dell’emergenza del COVID-19, dove gli obiettivi erano altri, ma ora è ancora più urgente intervenire per invertire la tendenza.
Dal CRM alla Value-Based Customer Experience
La customer experience (da ora in poi la abbrevieremo in CX) sembra essere ormai il Sacro Graal del nuovo mondo digitale. Si dice sempre più spesso che il cliente non compra un prodotto o un servizio ma un’esperienza. Innanzitutto va chiarito in cosa si differenzia la gestione della CX (Customer Experience Management o CEM) dalla gestione della CR (Customer Relationship o CRM). In questo ci aiuta un articolo della HBR: Understanding Customer Experience di C. Meyer e A. Schwager[4]. La sintesi è rappresentata nella figura seguente:
Altri hanno parlato di Connected CX[5] e di Intelligent CX[6]. Ognuna di queste definizioni sottolinea un aspetto particolare, ossia l’integrazione di esperienza, la multicanalità o l’utilizzo di strumenti di Intelligenza artificiale. Tutti temi interessanti a mio parere, ma ancora parziali. L’aggettivo che io trovo più appropriato, soprattutto in sanità, è quello di Value-Based CX[7].
Il concetto di valore in sanità è definito dal framework sulla Value Based Healthcare introdotto da M. Porter nel suo famoso articolo sulla HBR del 2005[8]. La formula base è:
Patient Value = Health Outcomes / Cost
Alcune osservazioni sono importanti. Innanzitutto il valore è sempre definito da parte di chi fruisce dei servizi (paziente e caregivers, il cliente appunto). Inoltre il valore è misurato come un rapporto tra risultati in termini di salute (health outcomes) e costi. Qualcuno ha provato a generalizzare la formula interpretando in modo esteso il numeratore e introducendo tra gli outcomes anche l’esperienza del paziente/cliente[9]:
Qualche esempio può servire a capire perché questa formulazione sia più adatta rispetto ad altri aggettivi come Connected o Intelligent. L’esperienza insegna che spingere in modo acritico sulla connessione e la multicanalità può portare a risultati disastrosi. Se è vero che il cliente gradisce poter interagire con diversi canali, è anche vero che questo può confondere l’esperienza del paziente/cliente e creare un customer journey frammentario e frustrante, soprattutto se i diversi canali non sono gestiti in modo coerente e integrato. Lo stesso esito si ottiene talvolta utilizzando le pur promettenti tecnologie di Artificial Intelligence: i famosi chatbot, tecnologie tra le più citate e abusate, se non integrati correttamente in un contesto organizzativo che preveda l’intervento umano quando necessario, possono generare un’esperienza cliente frustrante e in ultima analisi distruggere e non creare valore. In generale, ogni volta che vi sono due soluzioni con costi simili e noi scegliamo quella che genera un incremento minore degli outcome e della patient/customer experience (magari perché attratti dalla moda dell’intelligenza artificiale o della multi-canalità acritica), stiamo distruggendo valore.
Misurare la Customer Experience
Anche la CX può essere misurata. Un indicatore applicabile a qualunque contesto e molto diffuso, pur con i suoi limiti intrinseci, è il Net Promoter Score[10] o NPS. In sintesi si chiede ad un cliente di valutare in una scala da 1 a 10 la probabilità che hanno di consigliare ad amici e parenti un dato prodotto. La caratteristica del NPS è che i voti 9 e 10 sono considerati “promoter”, quelli sotto il 6 incluso “detrattori” e gli altri neutri. Per calcolare il NPS finale si sottrae la percentuale dei detrattori a quella dei promoter. Quindi avere un NPS elevato è molto difficile. I brand top nella CX sono anche quelli con il NPS più elevato.
Alcuni esempi di NPS di aziende leader: Starbucks 77%, Amazon 62%, Airbnb 74%, Netflix 68%, Tesla ha uno stellare 97%. In sanità il NPS è uno strumento poco utilizzato, con qualche eccezione negli Stati Uniti[11].
La critica principale al NPS è che sia un indicatore troppo “povero” (si basa su una sola domanda) e che andrebbe abbinato ad altre misure. Ad esempio la Value Based Healthcare pone un’enfasi importante, oltre che sulle misure degli outcome clinici, anche sulle misure di esperienza e di outcome percepiti dai pazienti. Queste vengono definite come PREMS (Patient Reported Experience Measures) e PROMS (Patient Reported Outcome Measures)[12]. Si potrebbe addirituttura pensare di complementare il modello introducendo delle misure di outcome relative all’ esperienza del paziente.
Senza addentrarci ulteriormente nell’ambito specifico delle misure di CX in sanità, ritengo tuttavia che abbinare indicatori specifici di contesto (come i PREMS e i PROMS della Value Based Healthcare) a indicatori più generali come l’NPS possa aiutare a oggettivare un concetto di per sé molto soggettivo, come l’esperienza dei fruitori dei servizi. Gestire bene l’esperienza dei pazienti/clienti ha impatti positivi anche dal punto di vista economico. Infatti, come dimostra uno studio di Deloitte Consulting, le strutture sanitarie con migliori risultati nei PREMS hanno anche migliori performance finanziarie[13].
Il fatto che in sanità in Italia (e non solo) si usino poco questi strumenti è indice di un problema di sistema più vasto, come vedremo nell’ultimo paragrafo.
Il paradosso della customer experience in un sistema universalistico
Come anticipavo nella parte iniziale, in Italia e in molti paesi europei viviamo in un sistema che contiene un paradosso importante. Da un lato la sanità per tutti e il welfare universalistico sono a mio parere una delle conquiste di civiltà più importanti della storia dell’umanità: ricordate che i primi due principi della CX in sanità sono quello di poter essere curati (accesso alle cure) e di poterlo fare in strutture adeguate (qualità della cura). Dall’altro, per mantenere questo approccio universalistico, abbiamo rinunciato ad un aspetto di competizione che è il modo migliore per stimolare il sistema verso un miglioramento continuo della CX. Infatti, in sanità abbiamo tradizionalmente concentrato gli investimenti per migliorare la compliance o l’efficienza operativa perché il sistema finanziato distribuisce risorse pubbliche in molti casi attraverso un meccanismo di tetti di budget assegnati alle strutture. Questo, unito ad una domanda non controllata che eccede sistematicamente l’offerta, non crea alcuna competizione per attrarre e ritenere i clienti del Sistema Sanitario Nazionale. Detto altrimenti: qualunque ospedale ha in quasi tutti gli ambiti più domanda di quella che riesce a soddisfare e i tetti di budget assegnati non permettono facilmente di competere per soddisfare nuove aree di bisogno. In molte strutture in cui ho lavorato i tetti di budget si esaurivano sistematicamente a fine novembre. Fanno eccezione a questa regola i pazienti solventi, ma almeno in Italia questi sono una componente molto limitata del fatturato. Se l’80 o 90% del fatturato di una struttura è garantito dal SSN ed ho più clienti di quelli che i miei tetti di budget mi permettono di gestire, non c’è un grande stimolo a investire sulla CX. A dimostrazione di ciò si può verificare che le strutture che possono vantare una CX di eccellenza sono spesso quelle a vocazione totalmente rivolta a pazienti solventi.
Non è semplice qui dire quale sia la strada per uscire da questo paradosso. Non credo che un sistema di competizione pura, sul modello americano, sia la risposta. Quello americano è un sistema che ha dimostrato sul campo di essere largamente inefficiente ed iniquo. Ma non possiamo nemmeno rimanere ciecamente abbarbicati sul sistema attuale per una serie di ragioni:
- Anche il sistema universalistico di molti paesi europei presenta delle forti diseguaglianze. In Italia è enorme il divario tra le regioni. E non voglio banalizzare parlando genericamente di nord e sud, perché ci sono alcune regioni del sud che hanno una buona sanità e qualcuna del nord che ha una sanità in grande difficoltà. In questo caso se si vive nella regione sbagliata vengono violati anche i primi due principi fondamentali della CX in sanità (accesso alle cure e cure di qualità).
- Il sistema di regole attuale, per i motivi visti sopra, non stimola la competizione positiva tra gli erogatori di servizi sanitari per il SSN e quindi l’innovazione e il miglioramento dei servizi. Questo porta ad un progressivo abbassamento della CX abbinata spesso ad un aumento dei costi non sostenibile nel medio periodo.
- Un CX problematica in senso lato rende difficoltose e quindi meno frequenti (o ridotte ai casi di acuzie) le interazioni tra i cittadini e le strutture sanitarie. Questo ha enormi ripercussioni: sappiamo bene che la prevenzione, le diagnosi precoci e la gestione della cronicità sono il modo più efficiente ed efficace di curare o contenere le malattie. L’esperienza del COVID-19 insegna.
L’esperienza di questi mesi di pandemia ha mostrato che cambiare è sempre una sofferenza e nessuna organizzazione umana, che sia un’azienda, un ospedale o una scuola, lo fa se non vi è costretta. Quando però ci sono le condizioni possono avvenire in poche settimane o mesi cambiamenti che normalmente avrebbero richiesto anni. Come ha dimostrato Kotter, se non capisci che il tuo iceberg si sta sciogliendo, non lo abbandoni[14]. Analogamente un sistema che non è costretto ad orientarsi al cliente non lo farà spontaneamente. È fondamentale quindi introdurre dei correttivi a livello di sistema per stimolare una competizione regolamentata e che favorisca una CX di valore. Che sia una riforma inspirata alla Value Based Healthcare e agli outcome[15], al Triple Aim[16] o ad un altro modello, l’importante è compiere il salto culturale dall’ottica a volume (“ti pago per volumi di prestazioni e attività anche prive di valore”) a quella bastata sul valore (“ti pago se fornisci degli outcome clinici e una CX di valore”). Altrimenti l’iceberg si scioglierà, che noi ne siamo coscienti o no, e potrebbe essere troppo tardi per trovarne un altro. E che gli iceberg si stiano sciogliendo, sia in senso figurato che letterale, è una delle poche certezze che questo periodo di pandemie e di sconvolgimenti climatici ci ha lasciato.
[2] http://digitalhealthsummit.it/component/speventum/speaker/74-jonathan-manis
[3] Da patior=soffro, ossia colui che soffre, che tollera, che attende e perservera con tranquillità: https://www.etimo.it/?term=paziente
[4] https://hbr.org/2007/02/understanding-customer-experience
[5] https://www.ttec.com/sites/default/files/eb-inside-the-connected-customer-experience.pdf
[6] https://www.contentintelligence.net/it/ci/intelligent-experience-il-futuro-della-customer-experience
[7] https://www.mckinsey.com/business-functions/marketing-and-sales/our-insights/linking-the-customer-experience-to-value#
[8] https://www.hbs.edu/faculty/Publication%20Files/20050627%20IHI%20Impact%20Meeting%2006272005%20Final-NV_c5acc589-9f69-48db-9c64-75df74dc30a5.pdf
[9] https://www.raslss.com/healthcare-shift-volume-value/#gsc.tab=0
[10] https://www.netpromoter.com/know/
[11] Si possono vedere alcuni dati di realtà statunitensi, previa registrazione gratuita, su Customer Guru (https://customer.guru/net-promoter-score/industry/healthcare-hospitals-and-care-institutions)
[12] https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC4089835/
[13] https://www2.deloitte.com/content/dam/Deloitte/us/Documents/life-sciences-health-care/us-dchs-the-value-of-patient-experience.pdf
[14] https://www.kotterinc.com/book/our-iceberg-is-melting/
[16] http://www.ihi.org/Engage/Initiatives/TripleAim/Pages/default.aspx