Cervino, 34 anni dopo. Ovvero elogio dell’attesa

 

Questo post sul mio blog è quello che in assoluto mi è costato più tempo e più attesa per essere scritto: esattamente 34 anni. Come ho già postato su Instagram, non so dire se sono una persona determinata nel raggiungere i propri obiettivi o forse solo un po’ lenta, ma finalmente posso scrivere la conclusione di questo sogno. Conclusione che mi ha stimolato anche qualche riflessione.

Era l’agosto del 1989 ed io ventenne insieme a due amici (Armando e William), come me appassionati di montagna, attraversavamo il Plateau Rosà per scendere verso la Hörnlihütte. Allora si riusciva a fare agevolmente questa traversata, oggi non più. La Hörnlihütte è il rifugio da cui si parte per la salita al Cervino per la via normale svizzera, quella originariamente percorsa da Whymper nella prima ascesa assoluta, in cui morirono quattro dei sette membri della spedizione. Da quell’ascesa Whymper non fu più lo stesso, tormentato dai fantasmi dei compagni morti che aveva visto durante la discesa. Io a vent’anni leggevo avidamente le avventure delle prime eroiche ascese e sognavo di ripeterne le gesta, magari però con qualche rischio in meno. Avevo quindi osservato con enorme invidia, nella serata passata al rifugio, le cordate che preparavano l’attrezzatura per l’ascesa dell’indomani. Ricordo ancora distintamente una cordata giapponese, che controllava e ricontrollava ogni singolo chiodo con precisione maniacale. Mi ero quindi informato circa il costo di una guida per salire il Cervino. La risposta fu per me tombale: 700 mila lire, un’enormità per i miei vent’anni da studente. Quella rinuncia mi bruciò tantissimo, ma non potevo fare altro. Pensai: chissà, forse un giorno avrò disponibilità e, se non sarò troppo vecchio, potrò pagare una guida. Quel giorno è arrivato 34 anni dopo: il 31 luglio 2023, verso le 8:30 di mattina, io e mio figlio festeggiavamo insieme la nostra conquista della vetta del Cervino!

 

È stata per me un’esperienza molto forte che ha stimolato diverse riflessioni. La prima è che la vita ti sorprende sempre. Onestamente negli anni avevo un po’ perso le speranze e cominciavo a dubitare della possibilità di realizzare il mio sogno. Poi da 8 anni a questa parte mi sono progressivamente riavvicinato alla montagna con tante belle soddisfazioni. Ma soprattutto, se qualcuno avesse detto al mio io ventenne che sarei salito sul Cervino con mio figlio… ormai quasi trentenne, penso che avrei reagito con un po’ di sano scetticismo! Eppure la vita è così, ti sorprende continuamente.

Mi torna in mente un aneddoto legato ad un film lentissimo e toccante, “Il Grande Silenzio”. Il regista è Philip Gröning e il film racconta della vita quotidiana nel monastero certosino de La Grande Chartreuse, sulle montagne vicino a Grenoble. L’aneddoto parla sempre di attesa. Il regista contattò l’abate a metà degli anni ‘80 chiedendo di poter girare un film documentario. Gli fu risposto: ci devo pensare. Poi il regista non sentì più nulla e diede per morta l’idea, fino a che 19 anni dopo lo stesso abate lo ricontattò dicendo: “Ci ho pensato, si può fare. Possiamo girare il film sulla Certosa”. Ciò che voglio dire è che nella vita, nelle piccole e nelle grandi cose, c’è un respiro che si muove con ritmi diversi da quelli frenetici a cui siamo abituati. Per qualcuno è il respiro dello Spirito, che “soffia dove vuole, ne puoi udire la voce, ma non sai né da dove viene né dove va”[1], per altri è il Karma o il destino, però ci sono degli accadimenti che non si possono derubricare come “coincidenze” senza fare un affronto alla ragione. E non sto parlando solo della salita al Cervino, piccola cosa nella scala della vita, ma di tanti fatti, eventi, incontri che ho avuto la fortuna di sperimentare. Dai percorsi misteriosi che hanno creato la mia strana e stupefacente famiglia, all’incrocio di eventi che ci hanno condotto nelle Filippine e in Vietnam, dove sono nati due dei miei figli. Ricordo molte attese: l’attesa a vent’anni di poter iniziare un cammino con mia moglie (ebbene sì, non pensavo solo al Cervino) e poi più avanti l’attesa per l’arrivo di ciascun figlio, attesa carica di dubbi e di domande (sapremo essere dei genitori decenti? Domanda che mi faccio ancora ora). L’attesa lunghissima e speciale del percorso adottivo, con quelle lunghe code all’alba in Questura per i documenti e le attese infruttuose di un abbinamento in Perù e poi in Salvador. Infine, l’attesa risolutiva e la partenza per il Vietnam, dove avvenne finalmente quell’incontro tanto desiderato. Ricordo anche l’attesa di trovare un contesto professionale allineato con i miei valori, con quel mio vecchio capo che mi urlava: “ma perché cavolo vuoi proprio andare a lavorare in sanità, lì non c’è business!”. E anche oggi vivo diverse attese: l’attesa di vedere i miei figli che si costruiscono una famiglia. L’attesa di quel progetto nella mia parrocchia o nella mia azienda che si dovrebbe proprio fare, ma per cui non ci sono ancora le condizioni. L’attesa di vedere sbocciare tanti giovani bozzoli intorno a me e che presto, ne sono sicuro, diventeranno farfalle. E forse in fondo c’è anche l’attesa della mia maturazione, da cui mi sento ancora molto lontano nonostante l’età. Del resto, come cantava Guccini, “ci vuol scienza, ci vuol costanza, ad invecchiare senza maturità”. L’attesa è dunque una costante nella nostra vita e la saggezza della Chiesa ce lo ricorda, con i tempi liturgici dedicati proprio all’attesa e alla preparazione. L’importante è che l’attesa non sia vuoto deserto colmo di nulla, altrimenti è desolazione, ma un’attesa per, un’attesa verso, un’attesa con. Questo vale per la vita personale ma anche per la vita professionale, dove siamo tutti ossessionati dalle cose da fare e ci dimentichiamo che a volte sarebbe meglio fermarsi, attendere, capire dove vogliamo andare e poi ripartire. Se imparassimo a inserire in ogni Gantt o in ogni Backlog un task chiamato “attesa che si chiariscano gli obiettivi”, forse eviteremmo tanti sforzi inutili e talvolta dannosi.

In fondo mi sento un po’ come Randy Pausch[2], uno a cui molti dei sogni della giovinezza si sono realizzati. Non tutti però, perché sono infinitamente più lento del grandissimo Randy e forse ho bisogno ancora di un po’ di tempo …

PS: per onestà intellettuale devo dire che io non sono per nulla paziente né propenso all’attesa. Da ingegnere amo il “fare” più che l’attendere, vivo di “to do list”, backlog, sprint e diagrammi di Gantt. Se chiedessi alla mia famiglia di definirmi con tre aggettivi, uno sarebbe certamente “impaziente”. Voglio riservare un po’ di speranza per gli altri due. Però, forse per contrappunto con questa vita frenetica che tutti conduciamo, sono fortemente affascinato dai contesti “lenti” come i monasteri benedettini o dalle attese, soprattutto se cariche di speranza. Forse c’è qualche possibilità che anche io, nei prossimi 34 anni, possa maturare!

[1] Gv, 3,8

[2] https://www.youtube.com/watch?v=ji5_MqicxSo