Perché gli sviluppatori (e molti altri professionisti IT) si stanno facendo fregare dallo “smart working” – Ovvero dell’importanza dell’amigdala

Una riflessione su una trappola in cui molti professionisti IT stanno cadendo…

(Why developers (and so many IT professionals) are being fooled by “smart working” – or around the importance of the amygdala)

So che molti sostenitori del lavoro agile a tutti i costi storceranno il naso di fronte all’affermazione che lo smart working può essere una fregatura. Ma purtroppo in alcuni casi è così. E per smontare eventuali obiezioni, premetto subito che sono favorevole allo smart working quando è realmente intelligente, ossia basato sul lavoro per obiettivi e su un mix equilibrato tra lavoro da remoto e lavoro in presenza. Chiarisco anche che non sono un negazionista e che mi rendo conto che, in questo momento storico di pandemia, ha senso che nei momenti critici anche il 100% delle persone possano lavorare da remoto per il 100% del tempo.

Veniamo però ad un esempio concreto di fregatura. Ormai gli annunci di lavoro per sviluppatori software (e non solo) precisano quasi sempre che il lavoro può essere svolto in tutto o in parte da remoto. Alcune grandi aziende di consulenza, nella corsa per accaparrarsi i migliori sviluppatori, promettono la possibilità di lavorare da remoto 5 giorni su 5 in alcuni casi anche post Covid. E in effetti queste proposte trovano gradimento da parte di molti sviluppatori e di altri professionisti dell’Information Technology.

Perché questo sarebbe una fregatura? È molto semplice. Se dovesse affermarsi post pandemia un modello in cui alcuni lavoratori rientrano in presenza ed altri (ad esempio sviluppatori e professionisti IT) continuano a lavorare per lo più da remoto, avremmo lavoratori di serie A, con stretti legami professionali e personali, e lavoratori di serie B, delle mere immagini virtuali. Questo annullerebbe 20 anni di progressi portati dall’Agile. Vi ricordate il primo principio dell’Agile Manifesto[1] che recita: “Gli individui e le interazioni più che i processi e gli strumenti”? Chi conosce un po’ di SCRUM sa bene che il ruolo dello sviluppatore è passato da quello di nerd che riceve le specifiche da un analista, si chiude nel suo cubicolo e sviluppa codice (senza mai vedere il cliente) a un elemento chiave dello SCRUM team. Lo stesso vale in generale negli ultimi anni, e ancora di più dopo il COVID, per tutti i professionisti del digitale. Quando ho iniziato a fare questo mestiere i sistemi informativi di un’azienda spesso erano negli scantinati (avete presente “The IT Crowd”?). Ora sempre più frequentemente l’ufficio del C.I.O. è, fisicamente o strategicamente, molto vicino a quello del C.E.O.

Insomma, siamo passati da essere gli utili servi che apparecchiano e poi mangiano in cucina o in cantina agli invitati speciali al tavolo principale. Lo dico senza boria, è un dato di fatto che dipende più dalla strategicità crescente e riconosciuta del digitale per quasi tutte le aziende che dalle nostre capacità.

Ripeto, non sto parlando della situazione in cui tutta l’azienda in modo equanime passa in smart working. Sto parlando del caso purtroppo non infrequente in cui alcuni professionisti tornano in presenza, altri preferiscono il lavoro da remoto. Questo è deleterio e non lo dico io. Sembra che per generare la sensazione di sicurezza e di appartenenza necessaria ad ogni team per raggiungere risultati eccellenti, la parte più antica del nostro cervello (l’amigdala) abbia bisogno di segnali costanti che rafforzino questa sensazione[2]. Vedersi spesso, avere interazioni brevi e di rafforzamento positivo, intrattenersi in incontri casuali e non finalizzati sono tutti segnali essenziali per la nostra amigdala. Nel lavoro totalmente da remoto questo prezioso flusso informativo verso la parte più antica del nostro cervello si riduce drasticamente con conseguenze deleterie.

Lo scantinato non è un luogo fisico, ma la metafora di una distanza, una separazione dagli altri: e allora perché vogliamo tornare ad essere quelli di “IT Crowd” che lavorano dagli scantinati dopo aver fatto tanta fatica per uscirne?

Non ho una risposta, ma posso immaginare che per alcune persone, con una personalità particolarmente analitica e con un lavoro che necessita di avere zone franche di concentrazione e silenzio, un certo grado di separazione sia attraente e forse anche utile. Ma lavorare 5 giorni la settimana da remoto non è “un certo grado di separazione”: è declassarsi a membri di serie B del team. Se invece il problema fosse la “fatica” della relazione con i colleghi, delle riunioni e degli incontri per chiarire i requisiti: beh, lavorare da remoto è un rimedio peggiore del male. C’è un principio dell’agile molto interessante che recita: “If it hurts, do it more often”[3]. Se ci sono problemi di relazione, la risposta non è eluderli, ma affrontarli!

Non ho una soluzione, ma a mio parere andrebbero ripensate radicalmente sia le modalità di interazione che gli spazi fisici. Vi sono moltissimi studi che dimostrano[4] come la prossimità “visuale” abiliti una serie di dinamiche positive nella relazione. La curva di Allen[5] lo rende evidente:


Quando la distanza supera i 50 metri le comunicazioni crollano. Se poi vi è la separazione in piani diversi, quindi con una barriera visuale oltre che di distanza, il risultato è ancora più drastico. Questo anche se si lavora nello stesso edificio, figuriamoci da remoto! Per questo molte aziende hanno focalizzato la progettazione architettonica dei loro edifici sulla massimizzazione degli incontri casuali e dei contatti tra team. Esempio sono la “Infinite Street” dell’MIT, l’impianto di produzione della Skoda di Mlada Boleslav nella repubblica Ceca o la BMW Projekthaus a Monaco. E (non) sorprendentemente l’ispirazione di molti di questi lavori può essere rintracciata nelle architetture dei monasteri medioevali[6].

Infatti l’architettura di un tipico monastero offre tre tipi di spazi in grande equilibrio tra loro: gli spazi dedicati alla preghiera (o alla parte di ispirazione), gli spazi dedicati alla produttività e all’isolamento (celle, dormitori, scriptorium…) e gli spazi dedicati alla vita comune (refettorio, sala capitolare, chiostro). In particolare si noti come il chiostro funga da “collante” tra tutti gli ambienti e facili proprio i collegamenti “orizzontali” e gli incontri casuali. Un equilibrio perfetto che le aziende moderne stanno lottando per ritrovare fatto di regole (definiamo una buona vota cosa è smart e cosa no), di cultura, di architettura e di relazioni. Una ricerca di equilibrio su cui forse tutti dovremmo fare uno sforzo di pensiero e di azione per evitare che lo “smart working” ci renda tutti “dumb workers”.

[1] https://agilemanifesto.org/iso/it/manifesto.html

[2] Coyle, D. (2018). “The Culture Code: The Secrets of Highly Successful Groups”. Ed. Random

[3] https://martinfowler.com/bliki/FrequencyReducesDifficulty.html – riferito a DevOps e continuous delivery, ma generalizzabile

[4] Per una sintesi si veda l’interessante tesi: “RECIPROCAL INFLUENCES BETWEEN THE DESIGN AND ARCHITECTURE OF WORKPLACE AND THE DEVELOPMENT OF INNOVATION” di Chiara Rampini (https://www.researchgate.net/publication/317099621_RECIPROCAL_INFLUENCES_BETWEEN_THE_DESIGN_AND_ARCHITECTURE_OF_WORKPLACE_AND_THE_DEVELOPMENT_OF_INNOVATION)

[5] Allen, Thomas J. (1984). “Managing the Flow of Technology: Technology Transfer and the Dissemination of Technological Information Within the R&D Organization”. Ed. MIT Press.

[6] Allen and Henn (2007)