L’Italia che non c’è (ma che ci potrebbe essere grazie al digitale) – ovvero Olivetti e il COVID-19: perché non siano due occasioni mancate

Una riflessione sul post-COVID e la tecnologia digitale a partire dalla figura profetica (e sfortunata) di Adriano Olivetti.

Ho visto recentemente un webinar di Università Cattolica sullo spettacolo teatrale del Prof. Paolo Colombo dal titolo: “Olivetti e il primo PC. La grande opportunità perduta”[1]. Spettacolo bellissimo e intenso in cui il Prof. Colombo, con la solidità che gli viene dall’essere docente di Storia delle Istituzioni Politiche e la leggerezza nel saper raccontare che gli è propria, ripercorre l’avventura di Adriano Olivetti e dell’Olivetti.

Vi riporto uno stralcio del dialogo di apertura dello spettacolo, una ucronia che rappresenta un telegiornale di un futuro che non c’è mai stato:

“L’ANCSI (Agenzia Nazionale per il contenimento della supremazia italiana nel mondo) ha fornito il consueto rapporto annuale sullo stato del nostro paese: debito pubblico e spread in calo costante (-86% e -130%). Lo spread tedesco in aumento del 152% rispetto a quello italiano. La cancelliera A. Merkel ha chiesto un colloquio per ricevere ulteriori aiuti dall’Italia dopo quelli già più volte concessi.”

“L’Italia si colloca al secondo posto mondiale nelle statistiche sulla delinquenza, con un numero di delitti superiore solo al cantone Svizzero dello Zugo.”

“Il programma delle 3I (Innovazione, Intelligenza, Ivrea) ha concluso il 53° anno. Il numero dei brevetti è salito del 14% negli ultimi 12 mesi. In aumento anche le start-up che crescono ad un livello pari a quello di Israele”

“L’italiano è la lingua più diffusa nel mondo. In aumento anche il numero dei laureati, che porta l’Italia in testa alla classifica OCSE. Disoccupazione giovanile ai tassi minimi della storia del paese.”

“Il numero di studenti Erasmus è in aumento costante (+52%). Nell’ultimo anno il numero di turisti in visita al nostro paese ha raggiunto gli 80 milioni con un indotto di 300 miliardi di Euro.”

Il Prof. Colombo conclude dicendo: “Io ho nostalgia di un paese che non c’è mai stato.”

Anche io.

So bene che ogni studioso serio come il Prof. Colombo direbbe che la storia non si ripete, però io un po’ di impressione di dejà vu per quello che stiamo vivendo oggi ce l’ho. Se sia un’anomalia in Matrix o un’illusione di altro tipo non lo so, ma ora secondo me ci troviamo di fronte ad un’altra grande occasione. Negli anni 60 era il passaggio dalla meccanica all’elettronica, che Olivetti capì benissimo insieme ad altri pionieri, oggi è il passaggio dall’elettronica al digitale. Negli anni ’60 abbiamo deciso di buttare a mare (in Italia) l’elettronica del primo PC[2] per tornare alla (più rassicurante) meccanica delle macchine da scrivere. E oggi?

Mi spiego meglio.

Sono cresciuto professionalmente come CIO[3] nell’era delle “e”. Si parlava e si parla ancora tanto di e-Commerce, di e-Leader, di e-Business, e-Invoice (o fattura elettronica), di e-Learning e anche di CCE (Cartella Clinica Elettronica) o di EHR (Electronic Health Record). Gli e- sono quasi infiniti, ognuno può metterci il suo. Il prefisso e- o elettronico ci rimanda ad un legame forte con il mondo fisico, analogico. In molti casi infatti il tentativo è stato quello di portare in un contesto tecnologico le stesse procedure o modalità operative usate nel mondo reale. La cartella clinica elettronica spesso era la trascrizione in un software della vecchia cartella cartacea. L’e-Learning era (e in molti casi ancora lo è) la registrazione di una lezione tradizionale con un docente che parla. Ci sono una infinità di siti di e-Commerce che cercano di riprodurre quello che avviene in un negozio fisico. L’esperienza in questi casi è pessima: i processi analogici complessi e con grande variabilità mal si adattano ad un trasferimento così come sono nel digitale. Ecco, ora ho introdotto un altro termine anche questo abusato: digitale. Molti oggi sostituiscono la parola elettronico con digitale e… il gioco è fatto, siamo veramente nel futuro. Se poi volete essere ancora più scaltri usate la parola smart, sta bene davanti a quasi qualunque cosa: smart city, smart campus, smart school, smart hospital, smart working…

Le ultime tre sono paradossi interessanti.

Non ho mai sentito parlare così bene sui social dello smart working come ora, ma non ho ancora trovato una sola tra le tante persone che lavorano da casa che mi abbia definito il suo modo di lavorare “smart”. Se va bene stiamo facendo del “remote working”.

Gli ospedali hanno fatto passi da gigante nella digitalizzazione, ma i processi sono spesso cambiati poco tra il prima e il dopo l’introduzione della tecnologia.

La smart school… beh, ognuno qui ha le sue esperienze positive o negative, ma non si può negare che in particolare le scuole elementari e medie (ma anche molte superiori e università) sono in grande difficoltà nel passare al digitale. Spesso ai bimbi o agli studenti vengono rifilati ore e ore di compiti o video lezioni infinite con un docente che parla annoiato davanti a un web-cam di pessima qualità.

Eppure in tutti e tre questi casi la digital transformation o, come io preferisco, la digital evolution potrebbe portare dei benefici immensi. Si pensi al vero smart working dove, grazie alle tecnologie di remotizzazione che funzionano e che tutti utilizziamo, si liberano milioni di pendolari dal calvario degli spostamenti, consentendo una modalità di lavoro davvero nuova e non alienante e un rapporto più sostenibile con l’ambiente. Si pensi a come un ospedale veramente smart potrebbe limitare i ricoveri e seguire i pazienti da casa[4]. Nel contesto specifico della pandemia di COVID-19, invece che sovraccaricare le terapie intensive ospedaliere che poi diventano focolai di infezioni molti pazienti potrebbero essere curati da remoto. E si pensi a come la scuola e l’università potrebbero essere trasformate con l’adozione di metodologie di digital learning come la flipped classroom[5].

Io penso però che utilizzare così le tecnologie digitali richieda un mix di competenze, cultura, fantasia e senso della bellezza. Noi italiani ed europei da questo punto di vista abbiamo un mix unico al mondo e Adriano Olivetti ha dimostrato cosa questo mix possa produrre.  Il pragmatismo di radice anglosassone ci ha dato strumenti potenti, ma noi possiamo dare un contributo fondamentale per cambiare processi e organizzazioni per sfruttare al meglio queste tecnologie. Ne beneficerebbero tutti: in primis i fruitori dei servizi, ma anche i lavoratori. L’occasione c’è: a noi decidere cosa succederà dopo questa emergenza. Si tratterà di un e soprattutto nuovo “caso Olivetti”, dove abbiamo buttato via l’opportunità dell’elettronica (innovazione) per tornare alla meccanica (passato e sicurezza) oppure se si tratterà di un nuovo rinascimento italiano ed europeo, questa volta digitale[6]?

 

Buon primo maggio a tutti!

[1] https://www.teatrocarcano.com/spettacoli/olivetti-e-il-primo-pc/

[2] https://it.wikipedia.org/wiki/Olivetti_Programma_101

[3] Chief Information Officer o Direttore dei Sistemi Informativi

[4] https://www.cardiovascularbusiness.com/topics/practice-management/are-virtual-hospitals-healthcare-centers-future

[5] https://www.yottabronto.net/il-bello-del-digitale-ai-tempi-del-coronavirus/

https://www.yottabronto.net/australian-open/

[6] https://press.princeton.edu/books/hardcover/9780691162829/digital-renaissance