L’insostenibile leggerezza dell’essere (digitale) e dell’AI

 

(Articolo pubblicato in anteprima su AgendaDigitale.eu)

Stiamo tutti vivendo in un “Paese delle meraviglie” digitale. Un paese dove i personaggi sono peculiari, le usanze sono diverse da quelle consuete e i desideri più strani si avverano. Basti pensare ai vari Altman, Musk, Gates, Zuckemberg, Jack Ma: non hanno nulla da invidiare al Cappellaio Matto, allo Stregatto, alla Regina di Cuori, al Bianconiglio e al Brucaliffo. Al primo mancano diversi venerdì, lo Stregatto pronunzia enigmi incomprensibili, la Regina è assetata di potere, il Coniglio è nervoso e tende a scomparire e il Brucaliffo fuma narghilè tutto il tempo. Lascio a voi di tentare i vari abbinamenti.

Anche le regole non sono quelle che ci aspettiamo. L’evoluzione esponenziale della nostra specie negli ultimi 2-300 anni si poggia su cervelli che sono fondamentalmente gli stessi di 70.000 anni fa, quando eravamo cacciatori e raccoglitori. Questo significa che tutti i nostri sensi si sono evoluti per identificare un certo tipo di pericoli, in particolare quelli che rappresentano un rischio immediato o comunque percepibile con i nostri 5 sensi: un predatore nascosto, acqua non potabile, carenza di fonti di nutrimento, ambiente ostile per troppo caldo o troppo freddo, tribù nemiche che si avvicinano. Ciò a cui il nostro istinto non ci ha preparati è la capacità di individuare altri tipi di pericoli, che ricadono in due grandi categorie: i pericoli non rilevabili dai nostri sensi e i pericoli il cui impatto è spostato molto in là nel tempo. Nella prima casistica rientrano ad esempio gli smartphone e i social media. Un social media non ha sapore. Annusare o toccare uno smartphone non ci restituisce nessun segnale di pericolo. Quindi, anche se razionalmente possiamo arrivare a comprendere il rischio insito nell’uso di questi mezzi, la nostra “pancia” (o le stratificazioni più antiche del nostro cervello) non ci trasmettono alcun segnale di allerta. Lo stesso vale per i pericoli lontani nel tempo: il debito pubblico, la deforestazione, l’esaurimento delle risorse naturali. Tendiamo naturalmente a sottostimare questi eventi, anche se ormai alcuni degli effetti sono percepibili anche nel presente dai nostri sensi (e.g. innalzamento delle temperature medie, siccità, inondazioni…).

Per questo parlare di sostenibilità è importante: perché l’unico strumento che abbiamo per gestire questo rischio è la razionalità, dato che non possiamo fidarci del nostro istinto. Qui però non parleremo di sostenibilità in senso generale, ma di un particolare tipo di sostenibilità: la sostenibilità digitale. Termine ambiguo e bifronte questo, perché se da un lato è indubbio che il digitale può dare un grandissimo contributo alla sostenibilità (e gli esempi sono molti), dall’altro è innegabile che il digitale abbia esso stesso un tema di sostenibilità. Ci concentreremo su questa faccia del Giano bifronte della sostenibilità digitale, descrivendo 4 esempi concreti e molto noti: blockchain, i datacenter, le applicazioni (inclusi i social) e per finire l’Intelligenza Artificiale.

Satoshi Nakamoto, il primo “insostenibile”

Partiamo da una tecnologia emblematica ed anche una delle più affascinanti degli ultimi decenni, da quando uscì il famoso paper del misterioso “Satoshi Nakamoto”[1]: la blockchain. È stata una delle prime applicazioni a mostrare in modo evidente i limiti di sostenibilità del digitale. Quando si parla di blockchain quasi a tutti vengono in mente i Bitcoin, che sono l’applicazione più famosa di questa tecnologia. Senza addentrarci nei complessi algoritmi che vengono utilizzati dalle implementazioni di blockchain storiche (come Bitcoin), “produrre” (tecnicamente è l’operazione di “mining”) un bitcoin è un’operazione estremamente energivora, come dimostra un grafico molto interessante che confronta il consumo energetico di Bitcoin con quello di alcuni stati[2]:

Figura 1: consumo energetico Bitcoin

In sintesi, perché un bitcoin venga riconosciuto dal network, tutti i partecipanti si impegnano a risolvere calcoli molto complessi che consumano molta energia. È la famosa tecnica del “proof of work”. Dal punto di vista della sostenibilità, un disastro. Il tema non è però irrisolvibile. Da qualche tempo alcune implementazioni di blockchain stanno modificando l’algoritmo di validazione delle proprie operazioni passando a quella che viene chiamata “proof of stake”, notevolmente più efficiente. Sempre il Bitcoin Energy Consumption Index afferma che, con questo algoritmo di validazione, si potrebbe risparmiare il 99.85% dell’energia utilizzata dall’algoritmo “proof-of-work”. Il problema però è che la sostenibilità o la inserisci “by design”, altrimenti diventa molto più complessa da gestire e meno efficace. Quanto tempo ci metteremo e quanta energia sprecheremo prima che le applicazioni storiche (Bitcoin in primis) migrino al nuovo algoritmo di validazione?

I datacenter, idrovore energetiche

Il secondo esempio è quello dei grandi datacenter. Se è indubbio che limitare i viaggi in aereo sostituendoli con videoconferenze abbia un impatto positivo sull’ambiente, l’utilizzo (soprattutto se non consapevole) dei mezzi digitali non è a costo ambientale nullo. Anzi. Secondo uno studio di McKinsey, nel 2022 il consumo energetico dei datacenter americani è stato di 17GW, ma la previsione è che arrivi a 35GW nel 2030. E gli Stati Uniti rappresentano solo il 40% del mercato globale[3].

Figura 2: crescita consumi energetici datacenter

Ma non basta. I datacenter sono dal punto di vista termodinamico delle grandi stufe, che richiedono un costante raffreddamento. Per raffreddare i datacenter di Google negli USA nel 2021 sono stati utilizzati 12,7 miliardi di litri d’acqua. Se è vero che l’acqua utilizzata non viene di per sé inquinata come nel caso delle acque radioattive di Fukushima, è anche vero che questa viene rimessa nell’ambiente a temperatura più elevata contribuendo quindi al riscaldamento globale, in particolare di laghi e fiumi. Certo i datacenter di nuova generazione stanno diventando tremendamente efficienti con indice di efficienza (PUE[4]) che si avvicina al limite teorico di 1 [5]. Buone notizie? Sì, in parte. Infatti, efficienti non significa efficaci. Lo spiego con un esempio. Un’automobile è un mezzo usato per andare da qualche parte. Quindi per verificare quanto bene ho consumato le risorse ho due parametri: l’efficienza (vale a dire quanto la mia automobile sarà efficiente nel convertire l’energia in input in energia cinetica) e l’efficacia (ossia il fatto di raggiungere la mia meta). Ma se io compro un’automobile super efficiente e poi la uso per girare intorno ad una rotonda all’infinito, ecco che ho efficienza elevata ed efficacia (rispetto all’obiettivo della meta da raggiungere) nulla, perché non vado da nessuna parte. Certo qui si apre un dibattito vastissimo su quali sono gli obiettivi che ci poniamo con il digitale, ma se il datacenter (l’automobile) è utilizzato dagli utenti per compiti discutibili come in molti utilizzi dei social e dello streaming (quindi stabilisco una meta sbagliata) e con software che “fanno molti giri per completare un’operazione” (quindi la meta è anche giusta, ma scelgo una rotta sbagliata), pur magari con grande efficienza stiamo sprecando enormi risorse per non andare da nessuna parte.

Linguaggi di sviluppo e applicativi

Allora veniamo ai linguaggi di sviluppo e agli applicativi. Ci siamo spostati dal livello “automobile” (datacenter) al livello “autista e mappe di navigazione” (utenti e applicativi). Qui gli sprechi, come abbiamo anticipato, sono di due tipi. Il primo riguarda l’inefficienza degli applicativi. È come avere un navigatore con delle mappe sballate, che ti porta sempre sulla strada più lunga e tortuosa. È dimostrato che l’evoluzione dei linguaggi di programmazione ci ha portato progressivamente verso strumenti certamente più potenti e con curve di apprendimento più brevi, ma anche con una sempre minore efficienza energetica. Linguaggi di programmazione come il C o il C++ (o, anche se un po’ più distanziato, Java) sono molto efficienti, mentre all’estremo opposto i vari Phyton, PHP, Ruby o Javascript[6] sono energeticamente molto inefficienti. È interessante incrociare questa statistica con quella dei linguaggi di programmazione più diffusi. Anche qui ci sono diverse statistiche, ne riporto una[7] relativa al 2023, ma anche guardandone altre è facile dimostrare che i linguaggi più usati sono proprio quelli meno efficienti dal punto di vista energetico:

 

Figura 3: linguaggi di programmazione più usati (2023)

Rispetto poi al tema della definizione dell’obiettivo (legato all’intenzione dell’utente), qui forse siamo messi anche peggio. Internet è stata una delle conquiste più grandi della civiltà umana e mette a disposizione una ricchezza di informazioni senza precedenti. Eppure, viene usata spesso per accedere a contenuti non proprio edificanti. E i social? Chi non ha mai fatto “dumb scrolling” su Instagram? In generale, il tempo passato sui social non può sempre essere definito un buon uso di questa preziosa risorsa. Eppure, l’utilizzo dei social media crea una quantità considerevole di emissioni di CO2[8]. E anche in questo caso i più usati sono quelli con consumi energetici maggiori.

Figura 4: impatto ambientale delle principali applicazioni (in gEqCO2/min)

L’elefante nella stanza: l’Intelligenza Artificiale Generativa

Last but not least, parliamo ora di ciò di cui tutti parlano: l’Intelligenza Artificiale Generativa (IAG). Anche se non abbiamo ancora capito se siamo ad una reale svolta verso l’intelligenza o no[9], una cosa è certa: dal punto di vista dell’impatto in termini di sostenibilità siamo certamente ad una svolta (negativa). In un intervento del luglio 2022 (quindi prima del lancio di ChatGPT) il CTO di AMD Mark Papermaster ha proiettato i consumi energetici dei sistemi di Machine Learning ipotizzando addirittura che, nel caso in cui i trend attuali continuassero, supererebbero la produzione mondiale di energia[10]. Insomma, l’elefante nella stanza, quando si parla di consumi energetici del digitale, è proprio l’IAG. Anche senza arrivare a scenari così catastrofici, vi sono alcuni dati molto eloquenti. L’addestramento di ChatGPT3 avrebbe generato circa 500 tonnellate di carbonio[11] e generare un’immagine con un’IAG equivale ad una carica completa di uno smartphone[12]. Se solamente Google spostasse il suo modello di servizio dalle ricerche tradizionali alla ricerca “AI Powered”, il suo consumo energetico arriverebbe a 29.3 Terawatt-ora per anno, equivalente al consumo energetico dell’Irlanda[13]. Per dare una rappresentazione visiva e comparativa dell’impatto ambientale della fase di training di un modello di IAG, può aiutare un grafico estratto dall’AI Index Report della Stanford University[14]:

Figura 5: impatto ambientale di modelli AI ed esempi di vita reale (in tonnellate di CO2 equivalenti)

Forse questi pochi dati possono aiutarci ad avere maggior consapevolezza di quello che facciamo. Quando “giochiamo” con Dall-e e proviamo a generare immagini per divertimento, stiamo contribuendo ad una catastrofe ecologica. Quando ci stupiamo dei costi di prodotti come ChatGPT o Co-Pilot, dovremmo riflettere sul fatto che quello che paghiamo è solo una frazione del costo ambientale che viene generato.

Conclusioni: “That’s not all, folks”

Come si è visto, quello della sostenibilità del digitale è un tema primario e non più eludibile. Come ogni tema complesso, va affrontato su più livelli. C’è un livello normativo, fondamentale. Ad esempio, la California ha emanato delle leggi che impongono alle aziende attive sul loro territorio (incluse OpenAI e Google) di essere più trasparenti rispetto agli impatti ambientali e ai relativi rischi[15]. Lo stesso sta facendo l’Unione Europea[16]. È un primo passo, ma importante. Oltre a questo, c’è il livello di responsabilità sociale e ambientale delle aziende, soprattutto dei grandi “hyperscaler”. Google sta puntando al “net-zero emission” per il 2030. Lo stesso stanno facendo molte altre aziende. Ma non è tutto, c’è di più. Ci sono almeno altri due aspetti fondamentali. Il primo è quello di sfruttare anche l’altra faccia della medaglia della sostenibilità digitale, ossia il fatto che il digitale possa dare un contributo alla sostenibilità. Gli esempi sono molteplici e per approfondirli un buon punto di partenza è il sito della Fondazione per la Sostenibilità Digitale[17]. C’è poi un ulteriore livello: quello della consapevolezza delle persone. Perché tutti noi abbiamo un effetto non neutro sulla sostenibilità del digitale. Una maggior consapevolezza da parte di chi usa i servizi digitali è un primo passo per un uso più responsabile dei servizi digitali stessi e per una coscienza “eco-digitale” diffusa. Proprio per diffondere questa consapevolezza, il gruppo di lavoro ICT del CoDAU (Convegno dei Direttori Generali delle Amministrazioni Universitarie) ha promosso il 7 febbraio a Bologna il primo convegno sulla Sostenibilità Digitale. Altre iniziative seguiranno, grazie al lavoro di tanti volontari. Magari anche di qualche nuovo volontario che vorrà proporsi di collaborare dopo aver letto questo articolo![18]

[1] https://it.wikipedia.org/wiki/Satoshi_Nakamoto

[2] FONTE: Bitcoin energy consumption index (https://digiconomist.net/bitcoin-energy-consumption)

[3] https://www.mckinsey.com/industries/technology-media-and-telecommunications/our-insights/investing-in-the-rising-data-center-economy

[4] https://www.data4group.com/it/dizionario-del-data-center/indice-pue-e-sostenibilita-data-center/

[5] https://www.sunbirddcim.com/blog/whats-best-pue-ratio-data-centers#:~:text=The%20best%20PUE%20ratio%20is,overhead%20that%20supports%20the%20equipment.

[6] https://greenlab.di.uminho.pt/wp-content/uploads/2017/10/sleFinal.pdf

[7] https://www.statista.com/statistics/793628/worldwide-developer-survey-most-used-languages/

[8] https://greenspector.com/en/what-is-the-environmental-footprint-of-social-networking-applications-2023/

[9] https://diginomica.com/ai-curve-fitting-not-intelligence

[10] https://semiengineering.com/ai-power-consumption-exploding/

[11] https://www.startmag.it/innovazione/quanto-inquina-lintelligenza-artificiale/

[12] https://arxiv.org/pdf/2311.16863.pdf

[13] https://thenextweb.com/news/googles-ai-could-consume-as-much-electricity-as-ireland

[14] https://aiindex.stanford.edu/wp-content/uploads/2023/04/HAI_AI-Index-Report_2023.pdf

[15] https://www.nytimes.com/2023/09/17/climate/california-climate-disclosure-law.html

[16] https://www.reuters.com/sustainability/eu-finalises-new-corporate-sustainability-disclosure-rules-2023-07-31/

[17] https://sostenibilitadigitale.it

[18] Per contatti: giuliano.pozza@gmail.com

 

Digital evolution, la lezione delle cattedrali romaniche

“Soprattutto in questo momento storico in cui i cambiamenti sono stati e saranno violenti per tutte le aziende e le organizzazioni, la flessibilità e l’agilità sono virtù fondamentali. Fino a prima della crisi innescata dal coronavirus, alcune aziende erano “costrette” a cambiare continuamente, altre navigavano placide come se il mondo fosse un mare tranquillo e sempre uguale. Ora quel tempo è finito. Nel mio ambito ad esempio (l’università), è cambiato completamente sia il modello operativo che il modello di business in due settimane!”

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