Riflessione sul digitale nelle università australiane
Carissima Stella[1],
dato che mi hai visto sparire improvvisamente, approfitto dei tempi morti e del jet lag che ti fa saltare in piedi alle 4 di mattina per raccontarti come è andato il viaggio in Australia. Sono venuto qui per visitare alcune università e capire come stanno vivendo la trasformazione digitale. Devo dire che, da quando siamo atterrati a Melbourne, non fanno altro che ringraziarci, perché il nostro arrivo ha coinciso con una serie di giornate di pioggia che hanno spento gli incendi nel bush. Coincidenza? Non credo.
Paese incredibile l’Australia dove succedono cose incredibili. Ti piacerebbe. Qui ad esempio è molto famoso un beagle come te che ha “adottato” un piccolo di opossum[2].
Ma torniamo alla trasformazione digitale. Abbiamo incontrato alcune università di eccellenza australiane e leader per l’innovazione digitale: Monash, Deakin, Melbourne, Swinburne, Western Sidney, Canberra, Australian Catholic University. Oltre le università abbiamo anche incontrato alcune aziende locali: in effetti, ora che riguardo l’agenda, per una visita di 1 settimana in Australia non male! Mi ha colpito l’energia che stanno mettendo nella trasformazione digitale e l’apertura che hanno dimostrato. Sarà che è la terra degli Open (che si stanno giocando proprio in questa settimana), sarà che è la loro indole. Dai tanti incontri di una settimana fittissima, mi porto a casa alcune parole chiave che penso descrivano quello che sta succedendo qui. E forse, perché no, potrebbero servire come stimolo di riflessione in generale sul cambiamento in atto anche per noi in Italia:
- Competitività e attrattività
La prima parola chiave è che le università australiane stanno vivendo un’intensa competizione. In alcuni casi, come Melbourne vs Monash, è quasi agonistica. Questo spiega anche il livello di investimenti nel digitale che, come mostreremo nel prossimo punto, è di un ordine di grandezza superiore a quello medio italiano. Io non sono un fan della competizione a tutti i costi, soprattutto se non ci sono regole chiare, ma purtroppo è un dato di fatto: dove non c’è competizione, non c’è innovazione. Lo abbiamo visto e lo vediamo in tanti casi di monopoli o di mercati chiusi. È semplicemente nel nostro DNA. Il che non è così male se andiamo alla radice etimologica: competere viene da cum-petere, ossia “andare insieme, convergere a un medesimo punto”[3]. Non c’è quindi solo il concetto di uno che vince e uno che perde, ma di un insieme di soggetti che vanno verso una meta comune (e tutti potrebbero beneficiarne). Questo sta accadendo nelle università che abbiamo visitato. La competizione è sia per gli studenti domestici (che possono scegliere come utilizzare il sussidio statale per l’università) che per gli internazionali. Per alcune università gli studenti internazionali rappresentano fino al 50% del fatturato. Qui gioca anche la forte attrattività Australiana. Però che dire, forse anche noi in Italia potremmo giocarci la carta dell’attrattività…
- Fattore di scala
Quando ci si confronta con realtà anglosassoni bisogna sempre tenere presente la regola del 10: c’è un ordine di grandezza di differenza rispetto al contesto italiano. Questo è vero in sanità come in ambito universitario, i due settori che conosco meglio. Sospetto sia una regola generale: anche i loro palazzi sono 10 volte più grandi dei nostri.
Qualche esempio? Se per noi in sanità o nell’università un progetto CRM di qualche milione di euro è un investimento importante, realtà australiane di dimensioni paragonabili spendono facilmente decine di milioni di euro per lo stesso tema. Se una università italiana medio grande ha una Direzione Sistemi Informativi che include qualche decina di persone, università australiane confrontabili ne hanno diverse centinaia. Ora questa “regola del 10”, per cui noi nel digitale investiamo 1/10 (o meno) rispetto alle aziende analoghe in Australia e USA, dovrebbe per lo meno farci riflettere. Sono convinto che spendere molto non sia l’unico ingrediente per sbloccare il digitale italiano, perché se si spende male si fanno anche dei danni, però noi stiamo investendo 10 volte meno… Fino a che non c’è diretta competizione tra noi e loro probabilmente questo sotto-investimento viene mascherato, quando ci confrontiamo su un mercato unico (come ad esempio la capacità di attrarre pazienti stranieri in sanità o studenti internazionali per le università) la differenza emerge impietosa. Andiamo inesorabilmente a due velocità e questo gap non può che allargarsi negli anni. Davvero è sostenibile continuare ad investire un decimo e pensare di competere nel mondo di domani, dove il digitale sarà discriminante? Al di la dei valori assoluti, credo che un’azienda che voglia porsi come leader nei prossimi anni non possa investire meno del 4-5% del fatturato in digitalizzazione. E non sto parlando delle telco o delle banche (che investono anche di più), ma di ogni realtà: anche un ospedale, un’università o una pubblica amministrazione. Qui ognuno faccia una verifica mentale con le aziende che conosce…
- Innovazione pragmatica
Questo è un aspetto che mi ha stupito (positivamente). Spesso si confonde l’innovazione digitale con la magia, che risolve tutti i problemi (anche quelli organizzativi). Qui ho trovato innovazione interessante (chatbot, intelligenza artificiale applicata agli analytics, assistenti virtuali, flipped classroom/blended learning…) ma molto, molto pragmatica. Una frase che mi ha detto un referente di un’università molto innovativa è stata: “stay grounded”. Un invito alla concretezza, all’umiltà nel senso etimologico. Umiltà che è anche legare i percorsi digitali al proprio DNA, come per l’Università di Deakin. Quando fu fondata aveva l’obiettivo di fornire corsi a distanza. Prima spedivano libri, poi video-cassette… ora sono leader nell’eLearning! Credo anche questa innovazione legata ai bisogni e alle radici sia quella più solida. Inoltre, se realtà che investono 40-50 milioni in un progetto CRM ti dicono che sull’intelligenza artificiale ci vanno cauti, significa che hanno scavalcato la fase “magica” di approccio alla tecnologia e sono passati alla fase di comprensione e consapevolezza. Per noi incontrare queste realtà è stato come avere una macchina del tempo che ti permette di guardare nel futuro (probabilmente in ambito tecnologico di 5 anni in avanti). Un’occasione preziosa per evitare gli errori e magari fare meglio! PS: una notizia: anche nel futuro comunque ci sono molte difficoltà non sono tutti allo stesso livello. C’è chi sta più avanti e chi arranca. L’altra cosa che ho visto nel futuro è che i C.I.O. qualche volta sono leader della trasformazione digitale, molte volte vengono relegati al ruolo di gestori delle operation e dell’infrastruttura. Anche su questo ci sarebbe da riflettere.
- Cultura agile
Questo è forse uno degli aspetti che mi ha colpito di più. Ho toccato con mano l’applicazione dell’empirismo anglosassone che sta alla base delle metodologie agile[4]. Anche qui c’è una grande varietà, con università più avanzate e altre meno. In qualche caso agile è utilizzato non solo dai team di sviluppo, ma anche nella fase di governance. Gli stessi principi di iterazione e continuous delivery, feedback e gestione del cambiamento, valorizzazione delle relazioni interpersonali, semplicità ecc. stanno cominciando a fare breccia anche a livello manageriale. Almeno una delle realtà che abbiamo incontrato sta usando alcuni strumenti agile come le burn-up charts nell’interazione con il top management. Questa sì secondo me è magia. Resa possibile a mio parere dal contesto culturale che ha saputo formare nel tempo dei senior executive non tecnici con una forte cultura digitale. Il CFO dell’istituzione citata ad esempio ha già lavorato in precedenza in contesti Agile, altri non conoscevano la metodologia (ricordo che è nata “dal basso”, ossia dagli sviluppatori) ma si stanno avvicinando velocemente. Credo che il salto più difficile sia proprio questo, aggiornare la cultura manageriale (dei manager sia tecnici che non tecnici) da un modello top-down pensato per un mondo in equilibrio (ma è mai esistito un mondo in equilibrio?) a un modello che incorpori i principi Lean e Agile. Ne ho già parlato nell’articolo sul Metodo G.and.A.L.F[5]. L’altro aspetto molto rilevante a mio parere è l’approccio integrato al cambiamento. Introdurre una nuova metodologia di insegnamento, come la flipped classroom alla Western Sydney University, ha voluto dire riprogettare la metodologia didattica, la tecnologia a supporto e gli spazi fisici. Tra l’altro la metodologia didattica sottesa è interessantissima. Ne ho parlato in questo articolo.
Anche qui però noi italiani ed europei potremmo dire la nostra. L’agilità e la velocità non sono tutto nella vita. C’è una lucuzione inglese molto usata che dice che c’è differenza tra “doing things right” e “doing the right thing”. Se Agile è certamente un modo per fare le cose nel modo giusto e acquisire velocità e adattabilità, è forse ancora più importante decidere cose si vuole andare prima di iniziare a correre e avere un approccio integrato. Qui la nostra cultura europea, forse meno pragmatica e più speculativa, potrebbe essere una risorsa importante.
Ora mi fermo qui perché tra poco ripartiremo per tornare a casa. Stella che dire, spero di rivederti presto e… magati ti porto un piccolo Koala scampato agli incendi (grazie a noi) da adottare!
[1] https://www.yottabronto.net/chi-sono/
[2] https://www.foxnews.com/lifestyle/beagle-raising-baby-possum-after-losing-her-litter
[3] https://www.etimo.it/?term=competere
[4] https://chronologist.com/blog/2012-03-25/agility-as-empiricism/
[5] https://www.yottabronto.net/governance-trasformazione-digitale-metodo-gandalf/