La lezione di Israele sulla business agility Parte 2: Gerusalemme (la diversità) e il kibbutz (l’umiltà)

Seconda parte della riflessione sulla business agility (organizational agility) a partire da quattro immagini di un paese in bilico tra eccellenza e caos, Israele. L’articolo che segue è la continuazione di: “La lezione di Israele sulla business agility – Parte 1

Gerusalemme, ovvero della diversità

Gerusalemme è una di quelle città che, una volta che ci sei stato, ti entra dentro. Qualcuno l’ha definita magnetica. È un mix talmente incredibile di tradizioni, riti, modernità, storie e culture che ti ipnotizza. È la sintesi di Israele, ma anche il punto focale di tutti i paradossi di questo universo, il suo meglio e il suo peggio. Durante il nostro viaggio in Israele abbiamo vissuto per una settimana nel “downtown triangle”, un quartiere molto vivace e piuttosto vicino a Mea Shearim, il quartiere ultra-ortodosso. L’incontro (e a volte lo scontro) tra culture era evidente in ogni ristorante, in ogni bar, ad ogni angolo di strada. Questa babele rischia di sconcertare, ma l’estrema diversità ed eterogeneità dei suoi abitanti è uno dei tratti caratteristici di questo micro-mondo. Nella città vecchia, in un chilometro quadrato convivono cristiani (con tutte le sotto denominazioni), ebrei, musulmani, armeni. Nel resto della città non è molto diverso. Ma se uno va ancora più indietro nel tempo (ad esempio visitando il Museo di Israele o lo Yad Vashem, il museo dell’olocausto), scopre che questa “ibridazione”, questo mischiarsi con altri popoli ed altre culture, ha caratterizzato le fasi più feconde della storia del popolo ebraico. Questa era ad esempio la situazione della Germania prima dell’ascesa nazista, dove gli Ebrei erano perfettamente integrati e rappresentavano una delle componenti più feconde e culturalmente vivaci della società tedesca. Ci sono state e ci sono anche situazioni in cui l’esigenza di preservare l’identità ha prevalso sull’apertura, come nelle comunità ortodosse, ma la tensione verso l’esterno esiste anche lì. Guardate la  serie TV Shtisel[1], un piccolo capolavoro, per averne un’idea!

Questa tensione tra identità e apertura, tra gruppo di eguali e comunità di diversi, è tipica di qualunque organizzazione umana, anche delle aziende. Un mio vecchio capo (milanista) mi disse una volta: “Stia attento a non costruirsi un team di soli interisti!” Io, pensando che scherzasse, replicai: “Perché tutti milanisti andrebbe meglio?” Lui serio: “Neanche per idea. Se ha un team di persone tutte simili tenderanno a fare gli stessi errori e ad avere una visione del mondo a senso unico. Si schiantano di sicuro!”. Si innesta qui anche il tema della diversità di genere: aziende o team a prevalenza maschile (purtroppo la maggior parte) sono organizzazioni estremamente limitate. Del resto, ho visto alcuni casi di team o di aziende prevalentemente femminili: anche questo è un problema. La diversità e l’ibridazione creano il confronto, lo stimolo, l’innovazione e in ultima analisi la capacità di generare novità e rispondere al contesto che cambia: questa è proprio l’organizational agility. La diversità, da un certo punto di vista, è un valore ancora più importante dell’agilità, perché senza diversità (anche genetica) la vita si estingue o degenera. Infatti, anche un’organizzazione in cui tutte le sue componenti si comportano in modo “agile” non sarebbe ottimale perché mancherebbe di diversità, come se in Israele ci fossero solo i nerd di Tel Aviv o gli ultra-ortodossi di Gerusalemme. È importante quindi che nella stessa organizzazione convivano ambiti più “tradizionali” con ambiti “agili”. Come l’innovativa Tel Aviv e la parte tradizionalista di Gerusalemme. In un suo bel libro sulla business agility[2] M. Hugos parla di tre “cicli” essenziali per un’azienda agile.

Il primo ciclo ha a che fare con il principio di realtà e ci porta al monitoraggio continuo e umile del contesto e la consapevolezza dei cambiamenti in corso. Ne parleremo nel paragrafo dedicato ai Kibbutz. Gli altri due cicli sono il ciclo dell’agilità, che ha a che fare con l’innovazione e l’adattamento continuo, e il ciclo dell’equilibrio, che si focalizza sui processi ripetitivi e sulla standardizzazione.

L’equilibrio tra gli ultimi due cicli, in un’azienda come nella società, dipende dal contesto. Più il contesto è mutevole e pericoloso, e più sono privilegiate le organizzazioni agili e adattabili. I piccoli mammiferi, insomma, quindi ci sarà una predominanza del ciclo 3. Più il contesto è stabile e prevedibile, più sono favorite le grandi organizzazioni in grado di fare economie di scala e lavorare sull’efficienza dei grandi numeri. Il modello è quello dei grandi dinosauri, con predominanza del ciclo 2. In ogni caso, entrambe le anime devono essere presenti, perché la mutevolezza è la regola anche in contesti apparentemente stabili.

Il Kibbutz, ovvero dell’umiltà

L’ultima immagine è quella del kibbutz: un’istituzione originale, non solo in Israele. Qualcuno ha detto che è l’unica organizzazione collettivistica realmente funzionante. Non so se sia vero, ma certamente il movimento kibbutz è stato (e lo è tutt’ora, sebbene ridimensionato) un elemento peculiare nella storia e nella società israeliana. Noi abbiamo visitato brevemente Lavi (nella foto), che ha la caratteristica di essere un kibbutz religioso ortodosso, ma aperto agli ospiti esterni. La maggior parte dei kibbutz invece sono di matrice socialista e non religiosa. La caratteristica di queste micro-società è quella di avere in comune non solo i mezzi di produzione, ma anche molti dei servizi della comunità. Non parlo solo di scuole e sanità, ma anche della cura dei bambini! Nei kibbutz tradizionali, infatti, i bambini non sono cresciuti dalle famiglie, ma in comunità gestite a turno dai membri del kibbutz stesso. E oggi i pochi kibbutz rimasti riescono ancora, con il 2% della popolazione impiegata, a produrre il 12% dell’export di Israele. Oltre a questo sono stati anche un polo di innovazione tecnologica: l’irrigazione a goccia, per citare una delle più famose, è un’invenzione nata in questo contesto.

Vi starete chiedendo: ma cosa c’entrano i kibbutz con la business agility? C’entrano perché esprimono bene, a mio parere un concetto chiave della business agility, ossia l’atteggiamento mentale necessario. Se guardiamo agli inizi del ‘900, agli inizi del movimento dei kibbutz, molti intellettuali, professionisti e docenti universitari ebrei che provenivano dall’Europa tormentata (i pogrom imperversavano soprattutto nei paesi dell’est) si rimboccarono le maniche e divennero agricoltori. Gli uomini che uscirono da questa fase eroica erano visionari tenaci e concreti, pragmatici e realisti. Uno su tutti Ben Gurion, che elesse il kibbutz di Sde Boker nel Negev a sua dimora. Sembrano proprio le caratteristiche indispensabili in ogni percorso di business agility. Infatti il kibbutz può ben rappresentare una caratteristica chiave della società israeliana, ossia il principio di realismo e il continuo uso dei feedback per ritarare il processo di adattamento continuo. Nel modello dei tre cicli, è quello che sta sotto il ciclo 1. Questo vale nell’ambito agricolo, ma lo stesso spirito lo ritroviamo nel campo militare e industriale. Ma accanto a questo spirito di umile concretezza, troviamo però anche un aspetto di leadership e di assertività, che spesso viene identificato con un termine yiddish: chutzpah. Gli israeliani ne vanno molto orgogliosi, anche se letteralmente può essere tradotto anche come “insolenza, impertinenza”. Contiene però anche un aspetto positivo di audacia anti-conformista, di informalità. Questo è certamente uno degli aspetti culturali che rendono Israele un terreno fertile per l’innovazione. Ci sono diversi studi che confrontano ad esempio la struttura gerarchica dell’esercito israeliano con quello di altri eserciti. Ne emerge quasi sempre il fatto che le catene gerarchiche sono particolarmente corte, i ruoli di comando molto meno numerosi e che anche un soldato semplice può mettere in discussione la parola di un superiore. Ogni idea viene messa il prima possibile alla prova sul campo di battaglia (ciclo 3 agile, unito al feedback continuo del ciclo 1 di awareness). Il feedback che ne deriva è preziosissimo, perché se l’idea è buona viene presa e sviluppata, se è fallace viene abbandonata subito.

Se volessimo buttarla sul filosofico, dovremmo parlare di empirismo come contrapposto al razionalismo[3]. E l’empirismo è esattamente il retroterra culturale di tutti i metodi “Agile”[4], e quindi anche della business agility. Il contesto della Governance agile dei programmi digitali è un altro tema interessante, a cui ho dedicato un articolo in cui parlo del “Metodo G.and.A.L.F.” nel mio ultimo articolo. Più in generale, l’atteggiamento mentale esemplificato dai membri dei kibbutz è umile nel senso più vero e direi etimologico del termine, ossia legato alla concretezza della terra (humus), ma anche capace di visione, leadership e innovazione, sempre con il realismo di chi non ignora nessun feedback. Aggiungiamo a questo la corretta percezione della necessità del cambiamento e un ecosistema di innovazione che si nutra di un contesto ibrido e che valorizzi la diversità: ecco gli ingredienti della lezione di Israele per un’organizzazione (o azienda) realmente agile!

[1] https://en.wikipedia.org/wiki/Shtisel

[2] “Business Agility: Sustainable Prosperity in a Relentlessly Competitive World” – di M. H. Hugos – Ed. Wiley

[3] https://plato.stanford.edu/entries/rationalism-empiricism/

[4] https://theagilemindset.wordpress.com/the-scrum-philosophy/