Il Dossier Odette

La storia di Odette, ovvero delle “idee future che sono già in giro” (Jovanotti)

Un sabato mattina come tanti: la famiglia che si sveglia, facce assonnate che a orari diversi si manifestano in cucina per la colazione, Stella che saltella sul portico ansiosa di avere la sua scatoletta di carne. Io e Alex, come al solito, siamo i primi ad alzarci e facciamo colazione insieme nella grande cucina illuminata da una bella luce autunnale. Sulla parete vicino al tavolo le fotografie delle ultime vacanze: mi piace scorrerle indugiando su questo o quel momento felice mentre sorseggio il mio tè giapponese nelle mattine del week-end, dato che in settimana la colazione è un affare sbrigativo che si conclude in pochi minuti.

Durante la colazione racconto ad Alex di una conference call con un medico italiano e una rappresentante del Ministero della Sanità del Madagascar circa la possibilità di attivare dei servizi di teleconsulto tra medici italiani e locali. Lei mi ascolta seria, ma un po’ triste. La fisso con uno sguardo interrogativo, fino a che lei mi dice: “Sarebbe stato utile anche ad Odette poter avere una second opinion con uno specialista europeo. La nostra pediatra mi ha detto che la seconda diagnosi fatta in loco era un abbaglio: è stata trattata per la malattia sbagliata e non ce l’ha fatta.”

Sono rimasto così, disorientato e senza saper più che dire, come dopo uno schianto che non ti aspetti. Il mio entusiasmo di un attimo prima era un ricordo incongruo e la luce che filtrava dalla finestra sembrava più grigia e fredda. Anche le foto delle nostre belle vacanze mi parevano fuori luogo, racconto di un mondo che vive spensierato mentre una bambina di 18 mesi muore per una diagnosi sbagliata. Mi sono alzato e mi sono messo dietro la sedia di Alex, massaggiandole le spalle in silenzio mentre lei guardava fuori dalla finestra. Non ha detto nulla e non si è voltata, perché mi conosce da quando avevo 14 anni, sa che sono un miscuglio brianzolo/veneto e che non amo mostrare i miei sentimenti.

Intanto pensavo a Odette, con Stella che aveva colto il cambio di atmosfera e non saltellava più, ma mi fissava interrogativa. Pensavo che il mio interesse per la telemedicina nei Paesi in via di sviluppo è nato proprio dalla sua storia. Ho ancora sul mio PC una cartella di qualche mese prima intitolata “Dossier Odette”, in cui sono contenuti i documenti che la riguardano. Ero indeciso se cancellarla o tenerla, poi l’istinto di accumulatore compulsivo di informazioni ha prevalso e l’ho tenuta. Contiene un’ecografia, i documenti della prima diagnosi fatta nel Paese africano in cui viveva e qualche elemento biografico. 18 mesi, vispa ma costretta a muoversi con la bombola dell’ossigeno e a rimanere in ospedale per poter essere assistita. Padre agricoltore, mamma casalinga e con altri due fratelli. La prima diagnosi parlava di sospetta Tetralogia di Fallot, detta anche sindrome del bambino blu: una malformazione cardiaca congenita, risolvibile con un intervento chirurgico che ormai permette il ritorno ad una vita normale. Ci eravamo anche attivati per un possibile trasporto in Italia, dove l’Associazione Bambini Cardiopatici nel Mondo era pronta ad accoglierla per un intervento. Poi una seconda diagnosi, fatta in loco, smontava l’ipotesi della malformazione cardiaca a favore di un problema polmonare curabile con terapia farmacologica e tutto si è fermato. Non sappiamo i dettagli, ma è verosimile che la prima diagnosi fosse quella corretta. Non posso smettere di pensare che se Odette avesse avuto l’opportunità di una second opinion da parte di un cardiologo (europeo o africano, non importa, purché qualificato), forse le cose sarebbero andate diversamente. Non posso fare a meno di immaginarla crescere. Mi ritrovo a pensare che con la sua storia avrebbe sviluppato forse una sensibilità particolare verso la malattia: sarebbe diventata un’infermiera, un medico o magari semplicemente una mamma umile e straordinaria come ce ne sono tante in tutti i Paesi del mondo. In realtà l’unica cosa che mi rimane di lei è il ricordo di una foto vista per un attimo su un cellulare, in cui camminava scalza con la cannuccia dell’ossigeno al naso e i grandi occhi curiosi spalancati sul mondo, e un folder chiamato “Dossier Odette” con un’ecografia sfumata del suo cuore.

Pensandoci bene però in realtà Odette mi ha lasciato molto di più. Mi ha spinto a partire per un viaggio, che è solo all’inizio, ma mi ha già fatto incontrare dei personaggi straordinari. Ho sempre avuto la curiosità innata di esplorare gli ambiti in cui la tecnologia può migliorare in modo drammatico la vita delle persone. È una delle ragioni che mi ha spinto a studiare bioingegneria e a dedicarmi all’informatica in sanità. Durante questo viaggio ho cercato realtà che potessero aiutare bambini come Odette. Le possibilità sono molte, da progetti specifici per sistemi informativi ospedalieri o territoriali nei Paesi in via di sviluppo, a progetti di “tele-anything” (tele-medicina, tele-consulto, tele-assistenza…), per mettere in comunicazione medici di Paesi diversi. Sono tecnologie ormai mature, che per modelli gestionali e di remunerazione distorti ancora fanno fatica ad affermarsi in alcuni Paesi, ma che potrebbero fare la differenza tra la vita e la morte per molte persone nei Paesi in via di sviluppo (e non solo). Ecco che in questo viaggio ho incontrato un’ONG chiamata Global Health Telemedicine (GHT) che fa un lavoro splendido: ha un network di circa 150 medici volontari che forniscono servizi di teleconsulto a 15 Paesi in via di sviluppo tramite una piattaforma di telemedicina. Il suo segretario generale, Michelangelo Bartolo, è un curioso medico-elettrotecnico, come si definisce lui stesso. E’ infatti un angiologo che però ha frequentato alle superiori un istituto tecnico e riesce a combinare in modo incredibile il meglio dei due mondi. Ha scritto anche diversi libri, cercate sugli store on-line per farvi un’idea e una cultura su cosa fa lui e la sua ONG.

Ma potrei andare avanti citando Claudio Tancini con Informatica Solidale e i progetti in cui installano e configurano Open EMR, un prodotto open source internazionale per la gestione dei dati clinici. Potrei continuare con Girolamo Botter di Informatici Senza Frontiere, con il loro Open Hospital (e tanti altri progetti). Per ciascuno di questi servirebbe un articolo dedicato (e forse lo farò), ma mi piaceva ricordare alcuni degli incontri che la storia di Odette mi ha spinto ad approfondire. Credo che gli informatici possano, oggi più che mai, fare tantissimo per trasformare in meglio il mondo e la vita delle persone. C’è bisogno di costruire e ricostruire ponti, non solo fisici ma anche digitali e di abbattere muri. Quale strumento migliore delle tecnologie digitali e dell’intelligenza collettiva e distribuita che queste abilitano? E si può fare tanto già ora perché, come diceva Jovanotti: “le idee future sono già in giro”.

Mentre riprendo la mia tazza di tè per continuare senza entusiasmo la mia  colazione penso che mi resta il rammarico di non aver potuto fare di più per Odette. So che di bambini ne muoiono tanti, ogni giorno, ma quando sono inciampato quasi per caso nella sua storia ho avuto l’intuizione di dovermene far carico. Intuizione o ispirazione che ho seguito (ognuno la spiega come crede), ma forse non abbastanza. Non avrei dovuto accontentarmi della spiegazione data, della nuova diagnosi, avrei dovuto insistere. Non l’ho fatto forse semplicemente perché trovavo comoda e rassicurante la risposta ricevuta, oppure perché sono stato travolto dalla vita di tutti i giorni. Di questo ne porto e ne porterò il peso, però Odette e la sua storia mi danno anche l’energia e la motivazione per proseguire il viaggio: se qualcuno volesse farne parte, o entrare in contatto con le associazioni che ho citato, mi scriva ora, ascolti l’intuizione o l’ispirazione del momento prima di essere travolto dalla vita di tutti i giorni!

 

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